Raccolta articoli C&TL

                                    

 

 

 

 

 

                                            I nostri paesi, le nostre

                                            tradizioni, i nostri tesori

 

 

 

 

da C&TL -Anno 1 N. 4 Novembre/Dicembre 1996

SAN MINIATO - Alla corte del tartufo di Paola Cipriani

Se vi lasciate alle spalle il monte Albano, in direzione di Empoli e Fucecchio, troverete, ai margini delle provincie di Firenze e Pisa, un paesaggio tappezzato da pianure ben coltivate e colline ricche di vigneti, oliveti e vegetazione mediterranea.

Arroccata sul crinale di tre di questi colli protesi parallelamente al corso dell’Arno, si erge la città di San Miniato.

San Miniato, caratteristica cittadina medievale sorta intorno all’anno mille, ha vissuto fino dalle sue origini una storia burrascosa piena di conflitti e di contraddizioni causati dalla sua ubicazione al confine di città potenti come Firenze, Pisa e Lucca, quasi sempre in lotta tra loro. Tutto questo non le ha impedito di svilupparsi e di arricchirsi di monumenti, chiese e palazzi, testimoni dell’importanza che questa città ha avuto fino ai tempi nostri.

Proprio qui, e ad un fatto vero accaduto durante l’ultima guerra (estate 1944), i fratelli Taviani si sono ispirati per uno dei loro films più tragici e più belli: “La notte di San Lorenzo”.

paesaggio, la storia e la bellezza della cittadina sono solo una parte dell’importanza e della sua notorietà: l’altra parte, che la rende famosa anche fuori dei nostri confini, è rappresentata da ciò che si trova nel sottosuolo di questa zona: il Tartufo.

Tutta la campagna intorno alla città è ricca dei prelibati Tartufi bianchi, che fanno di San Miniato una delle più prestigiose capitali gastronomiche d’Italia.

La sagra che vi si svolge nel mese di novembre, è la testimonianza più chiara e gustosa di quello che rappresenta il prezioso tubero.

Durante le quattro domeniche del mese, migliaia di persone visitano gli stands della Mostra Mercato, assaggiano e comprano le più svariate specialità gastronomiche, tutte improntate al gusto del tartufo. Tutto ciò è integrato con mostre culturali, iniziative e manifestazioni sociali, miranti a far rivivere la storia e la cultura di questa terra, così come pure il suo artigianato.

Una visita in questo periodo è un’occasione da non perdere. Chi scrive vi può garantire che passerete una giornata piacevole e interessante, da trascorrere con amici allegri e buongustai, a spasso per le viuzze, tra banchi appositamente preparati carichi di prodotti dall’aspetto e dal profumo invitante.

Potrete passeggiare nella piazza del mercato mangiucchiando tartine al tartufo, caldarroste e bruschetta condita con olio novo, innaffiando il tutto con il vino novello locale; potrete tentare la fortuna con il “Gratta e Vinci” con in palio premi come: olio, vino e tartufo; potrete farvi fare la ricerca araldica del vostro casato, o acquistare cento altre cose piacevoli. C’è proprio di tutto!

A fine giornata, per concludere in bellezza, non può mancare una lauta cena a base di Tartufo bianco consumata in una delle numerose e caratteristiche trattorie.

Si è fatto tardi, bisogna tornare verso casa; con il portafoglio vuoto si monta in macchina e in quattro e quattr’otto siamo a Pistoia!!!!!

UN TESORO A POCHI PASSI DA CASA

 La parola Tartufo deriva da latino “Terrae Tufer”, cioè “Tubero di terra”, infatti il Tartufo è un fungo dell’ordine dei tuberali che cresce nel sottosuolo. Si sviluppa nei boschi di querce, pioppi, salici e noccioli. Molto usato sulle tavole nell’età romana, cadde in disuso nei secoli successivi, per ritornare di nuovo in auge all’inizio di questo secolo, in particolar modo dopo la seconda guerra mondiale.

Di questo tubero ne esistono due tipi: quello bianco e quello nero. Il primo, più pregiato, cresce  in alcune zone del Piemonte (Alba), Emilia Romagna e in Toscana (S.Miniato e nella provincia di Siena). Il secondo si trova in prevalenza nelle Marche ed in Umbria, famoso il tartufo nero di Norcia.

La “Trifola” (altro nome del tartufo) si cerca con l’aiuto di cani appositamente addestrati o maiali, si raccoglie con un attrezzo detto “vagheggia” adatto a scavare ed estrarre il fungo.

I Tartufi migliori si raccolgono nel periodo dell’anno che va da metà settembre a gennaio, quelli trovati successivamente, detti “marzole” sono di una varietà di minor pregio e costo.

Il Tartufo si conserva in frigorifero, avvolto in carta gialla dentro vasi di vetro ermetici per circa 1 o 2 settimane, oppure si può surgelare, stando bene attenti a non scongelarlo completamente al momento dell’uso.

Ottimo per arricchire antipasti, primi piatti e carni, tagliato a sottili fette, dona alle pietanze un aroma ed un gusto veramente particolare. Non si escludono proprietà afrodisiache.

Il presso del Tartufo, come ogni altra merce, segue sempre la legge di mercato della domanda e dell’offerta, mantenendosi chiaramente sempre su livelli notevolmente alti, data la rarità e la difficoltà nel reperire tale prodotto.

  

 da C&TL Anno 2 N. 1 - Gennaio/Febbraio 1997

 LAMPORECCHIO: Dall’altare alle bancarelle di Paola Stilli Cipriani

Al confine della nostra provincia con quella di Firenze, adagiato sulle pendici occidentali del Monte Albano, si trova il paese di Lamporecchio. Il suo territorio si allunga dal monte Fiore (m.533) presso S.Baronto, fino al Padule di Fucecchio e riunisce sotto il suo comune varie frazioni dai nomi di origine latina come Giugnano, Papiano, Forciano, Borgano, Orbignano, ecc, ciò lascia supporre che in epoca romana la zona fosse già densamente abitata.

Sorto in età romana, come testimoniano i nomi delle sue frazioni, crebbe d’importanza nel periodo medievale, in quanto trovavasi sulla strada che dal Valdarno Inferiore conduceva nel Pistoiese, attraverso il passo del S. Baronto. Qui sorse nel VII secolo l’abbazia benedettina di S. Baronto. Il monastero fu costruito nel luogo dove si sarebbe ritirato a vita eremitica il monaco francese Baronto e dove sarebbe stato poi sepolto. Oggi dell’ex abbazia  rimane la chiesa romanica, ricostruita utilizzando gran parte dei materiali originali, dopo la distruzione da parte dei tedeschi nell’ultima guerra.

Se l’abbazia e la chiesa di S. Baronto furono il Centro religioso e spirituale a cui fecero capo le popolazioni di questa parte del Monte Albano, Lamporecchio, sicuramente, fu il centro organizzativo del territorio tanto che, in questo periodo, lo troviamo sede di plebato ed anche successivamente, pur figurando prima sotto il Capitanato di Pistoia poi sotto Firenze, mantenne sempre la sua indipendenza amministrativa.

Ancora oggi, la popolazione di Lamporecchio per quel suo spirito indipendente, laborioso ed imprenditoriale che la caratterizza, è riuscita a farsi conoscere ed apprezzare in Italia e all’estero per le molteplici attività commerciali, agricole ed artigianali, che si sono sviluppate sul suo territorio.

Inoltre è riuscita a rendere noti, anche fuori dai propri confini certi tipici prodotti che sono nati con la sua storia.

Tra questi, famosi e gustati da sempre in tutte le fiere e le feste paesane, i “Berlingozzi” ed i “Brigidini”.

Di queste due specialità dolciarie, tipiche del periodo carnevalesco, la più famosa è certamente quella dei Brigidini, questi dolci sono piccole cialde sottili dorate e croccanti al sapore d’anice, la cui ricetta si vuole dettata da certe monache seguaci di Santa Brigida per ciò dette “brigidine”.

Quelle monache erano addette alla preparazione delle ostie per la Comunione; da questa circostanza le suorine dovettero derivare l’idea di regalarsi una leccornia fragrante e trasparente come l’ostia, addizionando all’originaria ricetta delle particole, uova, zucchero ed anice.

Sempre per restare al nome dei Brigidini, si precisa che Pisa e Lucca in particolare li chiamano “Cicalini” per il rumore, simile, dicono, al canto delle cicale, che fanno sotto i denti quando si sgranocchiano.

Come si è detto in precedenza, i Brigidini venivano e vengono tuttora venduti sulle bancarelle nelle sagre di città e di paese così li ricorda anche l’Artusi che dice

“E’ un dolce o meglio un trastullo speciale alla Toscana ove trovasi in tutte le fiere e feste di campagna e lo si vede cuocere in pubblico nelle forme da cialde”

Oggi non si vede più cuocere i Brigidini e quando ciò accade si vedono moderne macchine elettriche ed automatiche che li fanno con grande velocità pur mantenendo la stessa qualità

Gli ingredienti della ricetta dei Brigidini sono i seguenti:

Farina, uova, zucchero, un pizzicotto di sale, un po' di liquore d’anice e dei semi d’anice.

Un tempo si lavorava sulla spianatoia l’impasto ottenuto unendo i sopra elencati ingredienti e si facevano fili cilindrici grossi come un mignolo che venivano tagliati a pezzettini. Nel frattempo si erano messe a scaldare sulla brace le schiacce (stampi di ferro con due dischi incisi fatti a mo’ di tenaglia), sulle quali si mettevano 6 o 7 palline di pasta, poi si schiacciavano e si rimettevano sul fuoco per pochi secondi. Appena pronti si staccavano dalle schiacce e con essi si riempivano i tipici cesti e i corbelli di zinco. Quest’ultimo era il contenitore più usato e più idoneo per conservare freschi e trasportare questi dolcetti sulle piazze dei paesi da parte dei Brigidinai, così si chiamavano i venditori di brigidini.

Io credo che tutti quelli che come me sono stati bambini nei primi anni del dopoguerra, ricorderanno, con nostalgia questo personaggio che giungeva il giorno della festa del Patrono, si sedeva dietro al suo corbello di zinco colmo di brigidini e cominciava a distribuirli in sacchetti di carta trasparente ai bambini e non, che gli si accalcavano intorno. Portava sempre un copricapo ed un grande grembiule di cotone bianco. A sera quando la festa era finita, come pure i brigidini, il Brigidinaio si caricava il suo corbello ormai vuoto, sulle spalle a mo’ di zaino e si avviava alla vicina fermata dell’autobus per tornarsene a casa, a Lamporecchio.

 

da C&TL Anno 2 N. 2 - Marzo/Aprile 1997

 I FAGIOLI DI SORANA - Da cibo dei poveri a leccornia di ricchi e buongustai

di Paola Stilli Cipriani

Oggi è una bella giornata di inizio primavera, il sole splende alto nel cielo terso, l’aria è tiepida, le colline che ci circondano cominciano a rinverdire, i prati sono pieni di fiori multicolori, tutta la natura intorno a noi si sta risvegliando dopo il lungo sonno invernale. Una giornata così non va di certo sprecata, decido pertanto di andare a vedere una delle più belle valli della nostra provincia.

Salgo sulla mia auto e mi dirigo verso il mare, attraverso tutta la Valdinievole da est a ovest in direzione di Pescia, che raggiungo dopo un breve viaggio, fra le numerose coltivazioni di fiori e piante che l’hanno resa famosa in tutto il mondo.

Qui inizia la mia escursione nella valle che parte dalla cittadina e sale verso nord lungo il fiume omonimo.

La vallata è nota con il nome di “Svizzera Pesciatina” appellativo datole per i suoi valori paesaggistici dal Sismondi Jean-Charles, economista, storico e letterato svizzero vissuto a Pescia per un lungo periodo tra il 1795 e il 1800.

Il primo paese che incontro, percorrendo la strada che si snoda lungo il corso d’acqua, è Pietrabuona, un castello situato in posizione strategica a guardia dell’ingresso della valle e conteso, fin dal X secolo tra Pisa e Firenze che poi lo conquistò definitivamente.

Oggi nella parte alta dell’abitato rimangono i resti della Rocca e di altre fortificazioni di quei periodi turbolenti.

Il nome di questo paese deriva sicuramente dall’ottimo materiale pietroso che si estraeva e ancora oggi si estrae dalle sue cave. Pietrabuona inoltre, è famosa per sue cartiere, la più importante delle quali è senza dubbio la cartiera “Magnani” dove a tutt’oggi si produce “carta a mano” con il procedimento in uso già nel Quattrocento e dove si possono vedere torchi e macchinari antichi per la lavorazione della carta.

Proseguendo, si incontrano altri piccoli paesi carichi di storia e di vestigia che ricordano il passato glorioso e talvolta difficile di questa parte della nostra regione. Deviando a sinistra nella valle del fiume Torbola, affluente del Pescia, c’è Medicina, qui sostò il condottiero Francesco Ferrucci il giorno prima della battaglia di Gavinana. Più avanti Fibbialla e sulla destra Aramo. Tornando poi sulla strada principale, si incontra S. Quirico in Valleriana nella cui chiesa - ricordata già dal IX secolo, in seguito rifatta in epoca romanica e ristrutturata nel Cinquecento - si conserva un interessante fonte battesimale.

Più avanti ecco Castelvecchio con la sua superba Pieve romanica, dedicata a S. Tommaso, a tre navate divise da grosse colonne con capitelli variamente scolpiti e concluse da absidi, con il presbiterio sopraelevato che ospita un’ampia cripta coperta da volte a crociera. Ricordata fin dall’alto Medioevo fu ricostruita in forme lombardeggianti nella seconda metà del XII secolo. Tuttavia alla fine del secolo scorso l’edificio fu in gran parte rifatto secondo le antiche forme, specialmente all’esterno. Dietro alla tribuna isolata dalla chiesa è la possente Torre campanaria. Un monumento della cristianità veramente bello e suggestivo, posto sulla strada che univa la via Cassia, che correva da Firenze a Lucca, all’alta valle della Lima e dei passi appenninici. Qui in viandante sostava per pregare e chiedere al buon Dio la protezione e quei doni necessari per poter continuare il cammino che, a quei tempi, non doveva essere privo di pericoli.

Salendo più avanti, si incontra Stiappa, situata in mezzo ai boschi di castagno dove, nel periodo estivo, crescono funghi porcini di ottima qualità.

Ancora più in alto, a circa 750 metri, ecco Pontito, paese dai caratteri tipici dell’insediamento medievale, con le case arroccate sulla montagna a mo’ di piramide, sulla sommità della quale si erge la chiesa. Da qui, un tempo, partivano i pastori con le greggi che andavano a svernare in Maremma.

Qui comincia anche il mio viaggio di ritorno a Pescia, scendo a Lanciole, una chiesa poche case e tanta pace e tranquillità.

Dopo alcuni chilometri si giunge al Ponte di Sorana, da dove si sale all’omonimo paese divenuto famoso in Italia e anche all’estero, più che per i suoi trascorsi storici, dei quali oggi rimane ben poca traccia, per la produzione dei fagioli, un tempo cibo dei poveri, oggi divenuti una ricercata leccornia per pochi ricchi buongustai.

Questo legume, coltivato in campi di origine alluvionale lungo il fiume, detti “diareti”, viene seminato su un terreno preparato con solchi profondi, su cui si adagia lo stallatico, che poi si copre con un sottile strato di terra, sul quale si pongono a dimora i fagioli a tre per volta ogni 20 centimetri circa, quindi si sarchia il solco lungo il quale vengono messe le lunghe frasche di castagno su cui si avvilupperanno, crescendo, le piante di fagiolo, fino a raggiungere e oltrepassare i quattro metri. Durante il periodo di crescita le piante verranno innaffiate con l’acqua del fiume.

Tutti questi fattori riuniti, terreno, acqua, aria, concorrono ad ottenere un prodotto con caratteristiche organolettiche particolari non riscontrabili su quei fagioli, nati dallo stesso seme di Sorana, ma piantati in altre zone della nostra penisola

Il prodotto che si ottiene a Sorana, ripaga ampiamente delle fatiche fatte, la qualità delle poche centinaia di chili all’anno che si producono, lo rendono il fagiolo più costoso e prezioso del mondo. Piccolo, bianco, perlaceo con striature e riflessi rosati, buccia sottilissima e di facile digeribilità , va cotto a fuoco lento preferibilmente nel classico fiasco alla Toscana con salvia e aglio condito con olio extravergine di oliva toscano, quello che pizzica in gola, per intenderci. Buono cucinato anche in molti altri modi.

Di questo legume non saprei che altro dire che già non sia stato detto prima da persone con capacità e conoscenze maggiori delle mie, io possono solo esortarvi ad andare ad assaggiarlo augurandovi fin d’ora, buon appetito !!

Termina qui il mio viaggio in questa valle ricca di chiese, castelli e fagioli.

 

da C&TL Anno 2 N. 3 - Maggio/Giugno 1997

 I CONFETTI PISTOIESI - Dolcetti di Primavera - di Paola Stilli Cipriani

I mesi di Maggio e Giugno sono sempre stati i preferiti dalle giovani coppie di fidanzati, per unirsi in matrimonio. In questo periodo dell’anno il tempo atmosferico è migliore, le giornate più lunghe, la temperatura ideale per uscire ed incontrarsi con parenti ed amici, è inoltre quel periodo centrale della primavera in cui la natura assume quei colori e profumi intensi, che la caratterizzeranno poi, nei mesi successivi. Tutte queste componenti contribuiscono, sicuramente, a facilitare gli incontri e la buona riuscita delle feste di matrimonio che si celebrano in questi mesi.

 Durante questo periodo dell’anno, inoltre, si concentrano un numero notevole di ricorrenze e festività religiose (Comunioni, Cresime, Battesimi) e non che hanno portato ad un alto consumo di quei dolcetti di zucchero che si chiamano “CONFETTI”. I confetti non sono altro che uno sciroppo di acqua e zucchero, con il quale si ricopre un’anima di anice, mandorla o altro. I più noti sono quelli bianchi, lisci, ovali, adatti a confezionare preziose bomboniere; ce ne sono per tutte le occasioni, rosa o azzurri per Comunioni e Battesimi, argentati o dorati per anniversari di Matrimonio, ci sono anche confetti rossi e verdi per lauree e diplomi.

Oggi i confetti lisci più usati provengono da Sulmona, cittadina dell’Abruzzo, qui si fa un ottimo prodotto industriale, come pure in alcuni paesi della provincia di Napoli, i più noti Ottaviano e San Giuseppe Vesuviano. Tutti comunque fanno confetti che servono ad un unico scopo: ringraziare, rallegrare e rendere più dolce la partecipazione degli invitati a queste feste così importanti.

Anche nella nostra città, Pistoia, fin dal lontano Medioevo, come ci ricorda Alberto Cipriani nel suo ultimo libro “L’uomo è ciò che mangia”, esisteva una produzione di confetti. Alcuni storici, invece, fanno risalire la loro origine ad un periodo precedente. Si dice infatti che siano giunti nel nostro Paese dall’Oriente, portati dai mercanti veneziani, intorno all’anno Mille. Ipotesi possibilissima in quanto i primi confetti avevano all’interno esclusivamente un’anima di anice, seme di una pianta originaria dei paesi orientali, ritenuta possedere poteri curativi e taumaturgici, per cui questi confetti erano considerati veri e propri medicinali e si potevano acquistare nei negozi di speziali e farmacisti.

Questi confetti che si producevano già in tempi così antichi e che si producono ancora oggi, nella nostra città, si differenziano da quelli precedentemente descritti per la loro forma, infatti non sono lisci, bensì, come si dice noi pistoiesi, birignoccoluti o ricci e racchiudono all’interno, ripieni diversi.

Nei secoli dal 1300 in poi, i confetti ricci venivano confezionati per essere dati in omaggio, durante un importante rinfresco, al Vescovo, al Capitolo dei Canonici, agli Operai di San Jacopo e soprattutto  alla nobiltà locale e forestiera che veniva ad assistere il 25 luglio, alle celebrazioni per San Jacopo, patrono della città.

Durante i secoli successivi, la tradizione della “Colazione di San Jacopo” divenne sempre più sontuosa e quindi onerosa per l’Opera che la organizzava; i confetti offerti erano sempre di più e sempre più grossi, finche nel 1777 il Granduca Leopoldo I soppresse l’opera di San Jacopo ponendo fine a questa usanza. Per fortuna, i confetti pistoiesi non subirono la stessa sorte, giungendo così fino a noi.

Oggi a Pistoia è rimasta una sola ditta che porta avanti questa dolce tradizione, è la nota “Confetteria Corsini” di Piazza San Francesco, fondata dal bisnonno dell’attuale titolare nel 1918.

Questo laboratorio fa un eccellente prodotto, usando ancora oggi, metodi artigianali e materie prime di ottima qualità adottando la formula del negozio per la vendita, aperto sul laboratorio di produzione, in modo da far vedere, a chi lo richiede, le varie fasi della lavorazione stessa che va dalla scelta dei vari ripieni usati, mandorle di Sicilia, nocciole, anice, cioccolato, bacca di cacao tostato e candito all’arancio, fino al confetto ultimato.

Qui si possono osservare inoltre, gli utensili usati per fare questi dolci, c’è la pentola di rame, dove viene sciolto, riscaldandolo, lo zucchero con l’acqua, per ottenere lo sciroppo che servirà poi, unito al cremor di tartaro, a ricoprire il ripieno scelto, ci sono le “bassine” sempre rigorosamente di rame dove, dopo molte ore di paziente cottura e costante sorveglianza da parte di un’operaia, nascerà il confetto vero e proprio. Le bassine sono recipienti simili ad impastatrici ed hanno sotto di essere un fornello che le riscalda, sono posizionate oblique come le betoniere e come queste hanno un movimento rotatorio che fa muovere continuamente i confetti perché non si attacchino gli uni con gli altri.

Lo sciroppo di zucchero e acqua cade all’interno di questi recipienti, dove già si trova l’anima del confetto, da un contenitore conico, sempre di rame, con un foro che viene aperto e chiuso a seconda delle necessità.

Il prodotto ottenuto è sempre di qualità eccellente sia per dimensioni, uniformità e gusto. Per fare un buon confetto occorrono otto ore circa di lavoro.

Ultimamente i confetti pistoiesi sono tornati ad essere offerti dalle coppie di sposi, in occasione dei matrimoni come già facevano un tempo i nostri genitori e i nostri nonni quando l’uso delle bomboniere confezionate con i confetti lisci era un privilegio di poche facoltose famiglie.

Termino questa mia ricerca su una delle più dolci usanze della nostra città, con un augurio, che questa antica tradizione pistoiese non scompaia ma anzi che venga incrementata e conosciuta anche al di fuori della nostra provincia e della nostra nazione, perché è sempre piacevole ricevere o donare il classico sacchetto trasparente o l’oggetto di rame (anche questo prodotto dell’artigianato pistoiese, sempre più raro), confezionato con i confetti ricci di Pistoia.

 

da C&TL Anno 2 N. 5 - Novembre/Dicembre 1997

 LA CASTAGNA

Oggi ghiottoneria per tutti, ieri nutrimento essenziale per i montanari Toscani

di Paola Stilli Cipriani

Ottobre, anche quest’anno siamo di nuovo giunti all’autunno. I mesi della bella stagione e delle vacanze sono passati velocemente, la natura intorno a noi sta cambiando i suoi colori e si avvia verso il lungo e meritato riposo invernale.

Le foglie degli alberi dei nostri boschi e dei giardini, si tingono dei caldi colori autunnali, più tardi cadranno ad una ad una lasciando le piante spoglie pronte ad affrontare il freddo inverno.

Alcune di queste piante, come ad esempio il noce, la vite, il castagno ed altre, prima di addormentarsi ci regalano i loro preziosi e saporiti frutti.

Oggi prenderò in esame il frutto di una di queste piante: la castagna.

La castagna è un frutto ricco di amido e quindi energetico e nutriente, contiene sostanze grasse ed ha una notevole percentuale di sali minerali, quali il potassio, il fosforo, lo zolfo, il sodio, il calcio ed altri. Per queste sue caratteristiche è utile per rinforzare muscoli, ghiandole, ossa, cellule nervose e sangue, inoltre contiene proteine vegetali simili a quelle del grano, un alimento veramente importante. Di tutte queste sue caratteristiche e proprietà, i nostri nonni non ne erano certamente a conoscenza, ma cibandosene riuscivano ad integrare ed arricchire la loro alimentazione, sopperendo a quelle carenze alimentari causate dalla scarsità, quantitativa e qualitativa, dei cibi reperibili in quel periodo.

 Un tempo, in questo mese, sulle montagne che circondano la nostra città, si effettuava in modo massiccio la raccolta delle castagne, alla quale partecipavano tutti i componenti della famiglia proprietaria del castagneto insieme ad amici e parenti che giungevano talvolta, dai paesi vicini per portare il loro aiuto. Certo questa era anche un’occasione per ritrovarsi e stare un po’ insieme.

Chi scrive, ha avuto la fortuna di vivere questa esperienza in prima persona, essendo nata in uno di questi piccoli paesi della nostra montagna ed avendo avuto i nonni materni che facevano questo tipo di raccolta.

Tutto questo è accaduto quando ero solo una bambina e benché da allora siano passati molti anni, ancora oggi ne conservo un bellissimo ricordo.

Al mattino mia madre ci svegliava di buon’ora, ci preparava un’abbondante colazione a base di latte fresco e orzo tostato, pane abbrustolito, burro e marmellata, poi ci faceva indossare indumenti pesanti di lana - perché oltre i 600 metri di altitudine era già freddino - inoltre indossavamo dei guanti di pelle - indispensabili per proteggere le dita dalle punture dei ricci quando si estraevano le castagne. Quando eravamo pronti andavamo a casa dei nonni per ritrovarsi con gli zii ed i cugini e tutti insieme ci incamminavamo verso i boschi di castagno.

In quel periodo i castagneti erano dei veri e propri giardini. Ogni proprietario, prima della raccolta, ripuliva il sottobosco, toglieva le foglie secche cadute l’autunno precedente, estirpava i rovi e le altre piante infestanti, lasciando crescere sotto ai castagni soltanto l’erba e le piante di erica, tra le quali spesso era facile trovare anche qualche bel fungo porcino. Ricordo che mio nonno, intorno ad ogni pianta di castagno, aveva fatto dei muretti di sostegno, per preservarle da possibili sradicamenti, durante le forti bufere di vento e pioggia in inverno. Queste specie di aiuole servivano  anche a far fermare i ricci e le castagne che cadevano dalla pianta stessa, essendo il terreno del bosco, quasi sempre in pendenza.

Ogni raccoglitore, giunto nella selva castanile sceglieva una parte dove effettuare il proprio lavoro ed iniziava la sua raccolta. Durante la giornata, per passare meglio il tempo e sentire meno la fatica, i raccoglitori si scambiavano le ultime notizie su parenti e amici comuni, oppure cantavano stornelli e canzoni popolari, altri ancora ridevano e raccontavano storielle e aneddoti spiritosi, i bambini più piccoli aiutavano i genitori ed i fratelli più grandi a riempire i cesti, un gran fermento.

All’ora di pranzo tutti ci riunivamo intorno al fuoco del caniccio per mangiare e riposare un po’. Poi si riprendeva il lavoro fin quando il sole non tramontava. A sera, gli uomini del gruppo portavano i sacchi pieni di castagne al caniccio (essiccatoio) dove venivano stese sui graticci di rami di castagno e lasciate ad essiccare per oltre un mese.

L’essiccatoio è una costruzione in muratura fatta nel bosco o meno, costituita da un’unica stanza dove viene fatto un fuoco che rimane acceso continuamente, giorno e notte, per circa due mesi. Al di sopra del fuoco c’è un solaio fatto con i rami di castagno e graticcio, sul quale vengono stese le castagne fino a completa essiccatura. Finito questo periodo le castagne, pulite dei resti della buccia, vengono portate al mulino per essere macinate e trasformate in farina, quella farina che per molti anni è stata alla base dell’alimentazione delle popolazioni della montagna pistoiese.

 Le nostre nonne con quella farina, facevano gustosi piatti come la polenta, detta anche pattona, da mangiare con ricotta di pecora o con uova al tegamino o altri condimenti, i necci, le frittelle, le lasagne bastarde o i tortelli ed in ultimo, ma non per questo il peggiore, il famoso castagnaccio, venduto intorno agli anni ‘20/’30 per le vie di Milano dai montanari toscani, chiamati dai milanesi “GIGI” che lo portavano per le strade in teglie tenute in bilico su un bastone.

Le castagne si possono gustare anche fresche, il modo più comune consiste nell’abbrustolirle, dopo averle incise (castrate) nella classica padella con i fori; queste sono le Bruciate o Caldarroste. Si possono inoltre bollire in acqua salata aromatizzata con rametti di finocchio selvatico o foglie di alloro, così preparate si chiamano Ballotte. Le castagne si possono consumare anche come contorno per arrosti e bolliti. Per gustarle in questa maniera dobbiamo prima fare delle semplici caldarroste che dopo avere sbucciate metteremo in un tegame con olio, rosmarino, sale e pepe, faremo rosolare per pochi minuti, dopodichè le bagneremo con un po’ di brodo e un goccio di aceto e, appena il liquido sarà ritirato, ecco pronto un ottimo contorno.

Certamente il modo più raffinato e goloso per gustare le castagne è quello di farle candite ottenendo gli ottimi Marrons glaces, anche se questi dolci non sono tipici della nostra tradizione regionale.

Oggi l’usanza di raccogliere le castagne, nella nostra provincia, sta tornando nuovamente con grossi benefici prima di tutto per gli alberi di castagno che sono di nuovo curati e protetti, poi per tutto l’ambiente che vive intorno a questi boschi e dove pian piano si ricrea un ecosistema, che si era parzialmente perduto o alterato. C’è anche da considerare un beneficio di tipo economico per la gente di montagna che ha ritrovato una piccola fonte di guadagno, cosa da non trascurare in un periodo in cui il lavoro non abbonda, specie in certe zone.

 

da C&TL Anno 3 N. 2 - Maggio/Giugno 1998

 IL CIOCCOLATO - Dall’AMERICA DEL SUD A PISTOIA di Paola Stilli Cipriani

Oggi tenterò di raccontarvi alla mia maniera di un prodotto dolcissimo dell’artigianato della nostra provincia: il cioccolato.

Molti esclameranno stupiti e perplessi: o’ che c’entra la nostra provincia col cioccolato?

C’entra, eccome se c’entra, poichè in città ed in un paio di paesi vicini si produce del cioccolato di alta qualità.

A Pistoia, in Piazza Mazzini, nel periodo di Pasqua, si possono ammirare, nella vetrina del famoso negozio-laboratorio del “CORSINI”, uova di cioccolato di varie grandezze, prodotte dal laboratorio stesso con cura e grande capacità.

Le uova avvolte in carte variopinte e luccicanti attraggono i bambini che sostano estasiati davanti a tanto ben di Dio e dopo lunghe contrattazioni con i genitori riescono sempre ad ottenere l’uovo desiderato, magari quello più grande della vetrina.

Se ci spostiamo di qualche chilometro in direzione di Firenze, arriviamo ad Agliana. Qui vive e lavora un vero artista della cioccolata, ROBERTO CATINARI..

L’incontro tra il Catinari e la cioccolata avvenne alcuni anni fa quando, l’allora diciassettenne Roberto, decise di emigrare da Bardalone, piccolo paese della nostra montagna, in Svizzera dove trovò lavoro presso una pasticceria di Winterthur.

Qui iniziò a conoscere tutti i segreti della lavorazione del cioccolato e dopo anni di lavoro e apprendimento divenne così bravo da vincere il primo premio ad un importante concorso del settore a Zurigo. Certamente, credo che sia stato molto gratificante per il Catinari ricevere questo premio proprio nel paese della cioccolata e sicuramente questo riconoscimento delle sue capacità lo incoraggiò a tornare in Italia e con mezzi di fortuna, a mettere su un piccolo laboratorio, dove inizio a produrre cioccolatini, che poi vendette personalmente alle pasticcerie di città.

Anche da noi il riconoscimento dell’ottimo lavoro svolto non tardò ad arrivare, potendo così, insieme alla moglie, installare l’attuale laboratorio di Agliana, nelle cui vetrine, in questo periodo, fanno bella mostra uova, gallinelle, agnellini e altre composizioni con soggetti ispirati alle festività pasquali, tutti rigorosamente di ottimo cioccolato decorati con glassa di zucchero o avvolti in carte multicolori.

Secondo una leggenda Atzeca, fu il dio Quetzalcoatl a portare dal Paradiso sulla terra il cioccolato. I Maya e gli Atzechi lo consideravano una medicina ed utilizzavano i suoi semi come moneta di scambio, si dice anche che l’imperatore Montezuma ne consumasse fino a 50 coppe al giorno convinto che avesse un potere afrodisiaco. In Europa giunse dopo la scoperta dell’America e il suo uso divenne molto di moda alla corte dei re di Francia, dove veniva servito come bevanda di metà pomeriggio.

In questo paradiso per golosi grandi e piccini, la fantasia del Catinari si sbizzarrisce trasformando l’impasto di cacao torrefatto e zucchero in dolci sculture ed in praline e cioccolatini dai gusti più vari. Molti dei prodotti che nascono dalle mani sapienti di questo bravissimo artigiano, riforniscono annualmente negozi e personaggi più o meno famosi in tutto il mondo.

Se ci allontaniamo un pò dalla nostra città ed oltrepassiamo il Serravalle, inoltrandoci sulla strada che da Monsummano va verso Fucecchio, incontreremo un altro laboratorio che produce cioccolato, ne sono proprietari gli SLITTI.

Il percorso di questa famiglia, per giungere alla produzione del cioccolato, è stato molto diverso da quello descritto precedentemente. Inizialmente gli Slitti avevano una torrefazione di caffe che distribuivano ai bar e alle pasticcerie della zona. Queste consegne venivano fatte da uno dei figli del fondatore dell’azienda, Andrea, che era attratto ed incuriosito da quei prodotti, fatti con il cacao.

Il giovane quindi decise di soddisfare questa sua curiosità ed iniziò anche lui a produrre del cioccolato.

Il primo esperimento realizzato fu quello di immergere i chicchi di caffè arabico tostati nel cioccolato. Il risultato fu ottimo e venne molto apprezzato e questo lo incoraggiò a continuare ed a cimentarsi in esperimenti sempre più difficili che lo portarono a conquistare prestigiosi premi in campo internazionale grazie alla realizzazione di vere e proprie sculture di cioccolata.

Oggi anche da Monsummano partono con destinazioni varie, raffinate e fantasiose confezioni di prelibatezze al cioccolato prodotte da questa azienda che, nonostante la fama ed il successo ottenuto, mantiene sempre una produzione di tipo artigianale per poter conservare l’ottimo livello di qualità raggiunto.

IL CIOCCOLATO

Il cioccolato si ottiene impastando lo zucchero con il cacao torrefatto. Entrambi i componenti devono essere ben polverizzati e mescolati insieme a lungo in apposite macchine a certe temperature, per ottenere così un miscuglio omogeneo.

Sovente a questo impasto di base si possono aggiungere altri ingredienti che possono variarne il gusto come la cannella, la vaniglia, la farina di nocciole, il burro di cacao o il latte in polvere.

I semi di cacao sono ricavati da un frutto di una pianta originaria del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, il

Theobroma cacao, nome derivante dal greco “theos” (“dio”) e “broma” (“cibo”), in quanto gli indigeni consideravano questa pianta nutrimento di orgine divina. I frutti crescono direttamente sul fusto della pianta e vengono raccolti e aperti per estrarne i semi che vengono sottoposti a fermentazione ed essiccazione, dopodichè sono pronti per essere macinati ed ottenere così la polvere di cacao, elemento base per la produzione del cioccolato.