Raccolta articoli C&TL
Musica! Musica!
da C&TL -Anno 1 N. 3 Settembre/Ottobre 1996
BOB DYLAN A PISTOIA di Giorgio De Vita Quest’anno il festival del blues della nostra città, con il concerto di Bob Dylan, ha riservato agli appassionati di folk e rock una sorpresa veramente particolare, che ha elevato il rango della manifestazione a livelli impensabili alcuni anni fa. Robert Zimmermann (alias Bob Dylan in onore del poeta Dylan Thomas), nato a Duluth (Minnesota, 1942), di origine ebrea, un vero mito della musica moderna, si era già esibito altre due volte in Toscana alcuni anni or sono, e per la sua terza visita ha accettato la nostra piazza, offrendo a Pistoia un’occasione di altissimo prestigio. L’appuntamento, forse irripetibile, ha esercitato un richiamo fortissimo, soprattutto fra i quarantenni e cinquantenni. Il pubblico ha risposto in maniera entusiasta ed i biglietti erano esauriti da giorni; già due ore prima dell’inizio del concerto si notava la presenza di amici e conoscenti che mai si erano visti in piazza nelle precedenti edizioni del festival, ed alcuni addirittura con i figli, ragazzi o adolescenti, forse incuriositi dalle parole con cui i genitori avevano descritto loro Dylan, per i più giovani illustre sconosciuto. Devo confessare che, quando ho acquistato il biglietto, ero piuttosto scettico, perché temevo che il ricordo delle incisioni in studio, tecnicamente “perfette”, potesse essere offuscato dalla voce, sempre incerta, di Dylan dal vivo, e dai soliti problemi acustici che accompagnano i concerti all’aperto, comunque avevo deciso che non si doveva mancare. Adesso ammetto che, in parte, mi sono dovuto ricredere: i problemi tecnici, facilmente prevedibili, sono stati dimenticati velocemente per l’atmosfera che si era sparsa ovunque e per la bravura dei musicisti. Ammirazione, commozione, curiosità ed altre sensazioni positive hanno avuto, presto e facilmente, il sopravvento su tutto il resto, ed al termine avrei voluto che il concerto, dopo più di un’ora, continuasse ancora. Dylan ha alternato vecchi successi a canzoni recentissime, accompagnato da un complesso di professionisti capaci e molto affiatati (ma su questo non avevo mai avuto dubbi): il chitarrista John Jackson, il batterista Winston Watson, il bassista Tony Garnier e Bucky Baxter Williams alla steel guitar hanno accompagnato Dylan in quattordici brani, guadagnandosi gli applausi convinti della platea. Dopo un inizio in sordina il pubblico si è “scaldato” alle note di “All along the watchtower” (dal L.P. “John Wesley Harding”, 1968) un pezzo portato alla celebrità da Jimi Hendrix e la sua “Experience” nel L.P. “Electric Ladyland” (ancora 1968) con un remake storico, e ripreso più recentemente dagli U2 nel L.P. “Rattle and Hum”. Anche se può sembrare strano, Dylan si è ispirato proprio alla versione U2 per l’arrangiamento, molto più ritmato rispetto alla versione originale, nella quale compaiono solo la chitarra acustica e l’armonica a bocca. Ancora tre brani elettrici ed il concerto è giunto alla sua parte centrale, in cui Dylan ha imbracciato l’acustica. Questo è stato il momento più suggestivo e, mi è parso, più gradito dal pubblico (il Dylan unplugged resta comunque immortale), soprattutto quando ha ascoltato la mitica “A hard rain’s gonna fall” (una dura pioggia cadrà), una ballata contro la guerra scritta nel 1962 durante la crisi di Cuba; questa canzone nel 1967, anno in cui fu pubblicata nel L.P. “The freewheeling Bob Dylan” (cioè Bob Dylan “a ruota libera”, il secondo album del cantautore americano), divenne un inno alla pace che infiammò tutto il mondo giovanile. Dopo questo intermezzo acustico il concerto si sarebbe dovuto concludere con gli ultimi tre brani elettrici (fra i quali ha spiccato “Maggie’s farm”, dal L.P. “Bringing it all back home”) ma, com’era facile prevedere, il pubblico ha richiesto più volte il bis; Dylan ha suonato una versione di “It ain’t me babe” (dall’album “Another side of Bob Dylan”) talmente rielaborata da renderla riconoscibile soltanto dal testo, ed infine “Rainy day women # 12 & 35”, scritta nel 1966 ed inserita nel L.P. “Blonde on blonde”, la canzone che ispirò la famosa “Pietre” di Antoine al festival di Sanremo. In definitiva un bel concerto, con una band tecnicamente ineccepibile ed un’atmosfera magica (e forse anche, tacitamente, un po’ nostalgica) che ci ha accompagnato per tutta la sera. Unico neo, almeno secondo il mio punto di vista, è stato il comportamento di Dylan il quale, durante l’intero concerto, non ha proferito verbo alcuno se si eccettua la scarna presentazione dei musicisti: non una parola di saluto, non un ringraziamento, non un sorriso, né all’inizio né alla fine. Coloro che lo conoscono dicono che non è un atteggiamento forzato né un desiderio di snobbare il pubblico, ma più semplicemente uno spontaneo aspetto caratteriale. Lascio a voi giudicare se tale comportamento sia adeguato alla sua professione; a me, sinceramente, pare di no.
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da C&TL Anno 2 N. 1 - Gennaio/Febbraio 1997 LA GRANDE AVVENTURA di Massimo Baldisserri E' uscita quest’anno The Beatles Anthology, un cofanetto di 8 videocassette, di circa dieci ore in totale, che ripercorre, in gran parte attraverso filmati inediti, la straordinaria avventura dei Fab Four. E’ questo un documento di eccezionale importanza per conoscere i retroscena della nascita dei Beatles, degli esordi di Liverpool, della loro trionfale carriera, dei problemi che hanno decretato la fine del mito. Nessuno agli inizi poteva prevedere cosa sarebbe successo nel corso di quegli anni, men che meno i Beatles, ma il loro talento, la loro tenacia ed il duro lavoro sia nei concerti che in studio di registrazione, hanno rivelato le loro straordinarie doti di musicisti e autori di ottima musica e decretato quel successo che non ha uguali nel mondo della Pop-music. L’antologia inizia con immagini di Liverpool nell’immediato dopoguerra, descrive l’infanzia di Paul, John, George e Ringo (nati appunto tra il ‘40 e il ‘46) e la loro adolescenza, ne racconta l’approccio alla musica. Le vecchie immagini in bianco e nero, molte delle quali girate direttamente dai familiari o dagli amici, sembrano così lontane dalla realtà di oggi da sembrare permeate da una sorta di atemporalità; di un alone di magia che ne rafforza il mito. Anche la storia dei protagonisti, non certo figli di papà, trasformati in breve tempo da anonimi ragazzini del Merseyside in stelle di fama mondiale, suscita in noi una sorta di identificazione, come nella favola di Cenerentola. E come avviene in tutte le favole, vorremmo che non avesse mai fine. La Liverpool degli anni ‘50, vibrante di musica americana, con la miriade di gruppi più o meno dilettantistici, con le decine di locali, ottime palestre per i gruppi emergenti, forniva il crogiolo adatto per la nascita di un fenomeno come i Beatles. L’inizio, come quasi sempre accadeva in quegli anni, era il piccolo gruppo di compagni di scuola che, rimediati faticosamente i soldi per gli strumenti, cominciava ad accostarsi alla musica “skiffle”, figlia del folk e jazz nero americano degli anni 20. Questa musica, facile da suonare e di gran presa presso gli adolescenti, fu anche la musica dei Quarry Men, nucleo storico dei Beatles. Dei Quarry Men facevano parte John Lennon, Paul McCartney e George Harrison. Il resto della band era composto da vari strumentisti che, molto spesso, ne facevano parte per il solo spazio di un concerto. Il gruppo cominciò a farsi strada nel panorama cittadino, con frequenti ingaggi nei vai locali e, in particolare, al Cavern Club, che sarebbe diventato “il locale” dei Beatles. Dopo alterne vicende, tra le quali il cambio del nome (da Quarry Men a Silver Beatles e infine Beatles) ed una scrittura rimediata ad Amburgo, durante un concerto al Cavern Club, furono notati da Brian Epstein, intraprendente uomo d’affari e proprietario di un grande negozio di dischi in città, che li contattò e li convinse a prenderlo come manager. La mole di lavoro svolta da Epstein diede i suoi frutti e dopo pochi mesi arrivò il primo contratto discografico. George Martin, capo dell’ufficio artistico della etichetta Parlophone di proprietà della EMI, si rese conto delle enormi potenzialità del gruppo e, dopo un paio di audizioni, li scritturò. Il contratto discografico coincise con l’arrivo di Ringo Starr alla batteria sostituzione di Pete Best, membro del complesso da più di due anni, dando così vita alla formazione definitiva. Il 5 ottobre 1962 uscì “Love Me Do”, 45 di esordio dei Beatles. Nel frattempo il gruppo manteneva una frenetica attività nei clubs e locali del nord dell’Inghilterra, suonarono nuovamente ad Amburgo, cominciarono a partecipare a trasmissioni in radio e TV locali. Nel Gennaio 1963 uscì il secondo singolo “Please, please me” che, grazie a recensioni molto positive, una opportuna trasmissione TV e una instancabile serie di concerti, alla fine di febbraio arrivò alla prima posizione in classifica, primo Hit di una lunga serie di numeri uno. L’antologia ripercorre anno per anno, le tappe fondamentali della incredibile ascesa del gruppo, il nascere e dilagare della Beatlemania, le varie esperienze che hanno caratterizzato e influenzato lo sviluppo dalla loro musica. Dai primi LP ancora intrisi di easy-listening ed ancora legati alla musica in voga nel periodo, col passare del tempo si evidenzia la ricerca di elementi meno banali e più maturi. Dopo la consacrazione in Inghilterra ed in Europa i Beatles invadono l’America e da essa riportano elementi della cultura hippy e della Psichedelia Californiana, da un soggiorno a Rishikesh al seguito del Maharishi Yogi acquisiscono spunti dalla tradizione musicale indiana (George introduce l’uso del Sitar in alcune composizioni), e cominciano ad interessarsi a forme musicali di assoluta novità nella musica pop di allora. La produzione dei Beatles sale costantemente di tono e tutti gli album da loro prodotti meritano di essere segnalati, ma in particolare “Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band” e “Abbey Road”, opere della maturità, rappresentano vere e proprie perle della pop-music di tutti i tempi. In “Sgt. Pepper” del 1967 le canzoni si susseguono senza spaziatura, come se si trattasse di una lunga suite; assemblate di seguito nonostante appartengano a generi talvolta molto diversi tra loro. In esso brillano ‘Lucy in the sky with diamonds’ con riferimenti a visioni da LSD, l’orientaleggiante ‘Within you without you’, la struggente ‘She’s leaving home’, il rock orecchiabile ‘With a little help from my friends’ e la poetica ‘A day. In the life’. L’anno seguente iniziano le sedute per il nuovo LP dal titolo provvisorio ‘Get Back’, ma durante le prove cominciano ad emergere dissapori sempre più evidenti tra i quattro (nell’ordine Ringo, George e John, in vari momenti avevano manifestato l’intenzione di lasciare il gruppo, ma la cosa non fu divulgata). I Beatles sono già sull’orlo della crisi quando, abbandonato il progetto ‘Get Back’, decidono, prima di sciogliersi, di incidere un nuovo disco. Siamo nel 1969 e vede la luce ‘Abbey Road’ (dal nome della strada dove sono gli studi della EMI), stupendo canto del cigno del gruppo, dalle incredibili e levigate sonorità, bello dall’inizio alla fine, ma ancora di più nel lunghissimo medley che riempie la seconda facciata. Nelle ultime due videocassette vengono analizzati i motivi che hanno determinato lo scioglimento, le difficoltà che avevano portato, già dal 1966, alla rinuncia a suonare dal vivo togliendo forse così ciò che era stato il vero collante del complesso. Il lavoro in studio, pur nella coesione che determinava, non poteva sostituire il feeling e l’atmosfera elettrizzante che prova chi suona dal vivo. Le divergenze tra McCartney e Lennon si acuiscono e investono le scelte economiche, organizzative e, cosa fondamentale, anche quelle musicali. Il 10 aprile 1970 una lettera di Paul McCartney annunciava al mondo la fine dei Beatles. E’ difficile descrivere l’impatto dell’opera dei quattro di Liverpool, spiegare le ragioni di un successo così travolgente, cosa ha catalizzato miriadi di fans in quella specie di isteria collettiva che è la Beatlemania. Per rendersi conto di cosa sono stati i Beatles e la loro musica, basterebbe riascoltare gli hits di vari artisti dei primi anni 60 e confrontarli con Yesterday, Eleanor Rigby o Ticket to ride. Fino dai primissimi album si noterebbe la capacità compositiva, l’energia, la freschezza delle composizioni di Lennon-McCartney a scapito del beat di maniera, delle canzoncine sdolcinate da Hit Parade, delle varie scopiazzature di Elvis o Buddy Holly (con pochissime eccezioni di un livello apprezzabile). Si noterebbe la ricerca musicale, lo sforzo creativo, il gusto della novità senza mai cadere nell’eccesso, la volontà di seguire percorsi musicali ancora inesplorati. Gli alfieri del Beat sono stati i primi, hanno prodotto decine di gruppi che ne hanno seguito la scia, ma non si sono fossilizzati sui traguardi raggiunti traendo slancio da ogni pezzo per progredire. I Beatles si sono sciolti ormai più di 25 anni fa, ma continuano a destare interesse e la loro immagine e la loro musica vengono considerate emblematiche non solo degli anni 60, ma di tutta la seconda metà del secolo. La raccolta The Beatles Anthology è disponibile presso il Videoclub del Circolo Dipendenti per il noleggio gratuito (1 cassetta per volta per massimo 7 giorni). Nei prossimi numeri di Cassa & Tempo libero verrà recensita la discografia completa dei Fab Four.
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da C&TL Anno 2 N. 2 - Marzo/Aprile 1997
I long playng dei BEATLES 1^ puntata di Giorgio De Vita Inizia con questo numero un ciclo di commenti sui 33 giri dei Beatles stampati in Italia : essi sono dei veri e propri classici, che non hanno bisogno ne’ di presentazioni ne’ di pubblicita’. Tutta la discografia ufficiale si trova, naturalmente, su CD e, a riprova dell’immortalita’ (musicale !) dei “fab four”, e dell’interesse che questi dischi suscitano ancora dopo 34 anni, essa e’ fra le pochissime estranee alle varie offerte promozionali che riempiono le vetrine dei negozi. I Beatles non sono ancora passati di moda ! A volte c’e’ qualche differenza fra le edizioni attualmente in commercio (compact disc), che rispecchiano quelle dei L.P. inglesi dell’epoca, e quelle originali italiane (in vinile) degli anni ‘60, introvabili ormai : in questi casi verranno evidenziate tali differenze. I primi due long playing furono pubblicati in Italia fra la fine del 1963 e l’inizio del 1964, con etichetta PARLOPHONE e distribuzione CARISCH. Erano rigorosamente monofonici e con le copertine ed i titoli differenti rispetto alle corrispondenti edizioni inglesi. Il primo porta la data del 26 novembre 1963. La copertina dell’edizione inglese riporta una foto mai utilizzata nei dischi italiani, mentre quella usata per la copertina dell’edizione italiana e’ la stessa del secondo L.P. inglese (intitolato WITH THE BEATLES). Il titolo originale e’ THE BEATLES - PLEASE PLEASE ME, che invece diventa semplicemente “The Beatles” nell’edizione italiana (siglata PMCQ 31502). Sul retro della copertina c’e’ la prima presentazione al pubblico italiano di questo gruppo di ragazzi semi-sconosciuti: per lo piu’ dati anagrafici e frasi di circostanza, come si usa con i complessi che, si pensa, pubblicheranno qualche pezzo interessante e basta. D’altra parte nulla lasciava presagire il boom che avrebbe travolto, di li’ a poco, i quattro baronetti. Ben sei canzoni del disco non sono composizioni dei Beatles. Fra queste le piu’ conosciute sono “Baby it’s you” (cantata da John e scritta, fra gli altri, anche da Bacharach), “A taste of honey” (di Scott-Marlow; canta Paul) di cui e’ famosa la versione italiana dei Giganti, che s’intitola “In paese e’ festa”, e l’arcinota “Twist and shout” (di Medley-Russell), gia’ incisa dagli Isley Brothers. Le altre sono : “Boys” (canta Ringo), “Anna” (un bel lento di Arthur Alexander) e “Chains” del prestigioso duo Gerry Goffin e Carole King. Gli altri otto brani sono tutti firmati “Mc Cartney-Lennon”, ma questa disposizione rimarra’ un’eccezione unica, giacche’, dal disco successivo, Paul e John firmeranno sempre invertendo l’ordine dei loro cognomi, e l’accoppiata vincente diverra’: “Lennon-Mc Cartney” (forse perche’ piu’ eufonico ?). Soltanto due di queste otto canzoni non hanno avuto molto successo : “Ask me why” (che e’ il retro del 45 giri con “Please please me”) e “There’s a place”. Le altre invece sono assai conosciute, come “I saw her standing there” (un rock cantato da Paul), “Misery”, ”P.S. I love you” (che e’ il retro di “Love me do”, primo 45 giri dei Beatles), e “Do you want to know a secret” (cantata da George). Le altre due, cioe’ “Please please me” e “Love me do”, sono addirittura famosissime. Un’altra curiosita’ che, assieme ad altre ragioni, fa di questo disco un pezzo raro per i collezionisti, e’ un errore di stampa, sul retro della copertina, nel titolo della penultima canzone la quale, da “There’s a place”, e’ diventata “There’s a plance”; i piu’ dotti e raffinati potrebbero pensare ad un caso di epentesi, ma si tratta, molto piu’ semplicemente, di un refuso : sull’etichetta del vinile il titolo e’ scritto correttamente! Dopo i primi due gia’ citati successi a 45 giri, nel ‘63 uscirono altri due dischi : il primo comprendeva “From me to you” e “Thank you girl”, mentre l’altro era composto da “I’ll get you” e dal grande successo “She loves you”, il cui “rivoluzionario” coretto “yeah yeah yeah” suscito’ l’interesse addirittura del Daily Mirror, che gli dedico’ un editoriale. Il 22 novembre fu pubblicato in Inghilterra il secondo L.P., ma sul vinile italiano e’ incisa la data del 4 febbraio 1964. Come si e’ gia’ detto, in Inghilterra s’intitola WITH THE BEATLES, mentre l’edizione italiana diventa “I favolosi Beatles” e la copertina ritrae i quattro musicisti in un giardino. Evidentemente la foto non dev’essere piaciuta molto, perche’ poco dopo il disco fu ritirato, per tornare nelle nostre vetrine con la copertina definitiva, uguale a quella originale d’oltre manica, ed anche il titolo fu allineato a quello inglese. Per tutti questi motivi la prima edizione italiana e’ diventata un raro pezzo da collezione, quotato oltre mezzo milione di lire nei vari mercatini itineranti lungo il bel paese. Anche questo disco (siglato PMCQ 31503) riporta, sul retro, una nota, che stavolta si dilunga maggiormente sul successo eccezionale riscosso dai Beatles, pero’ il commentatore si preoccupa unicamente di sottolineare l’aspetto commerciale del fenomeno (evidenziando la rappresentanza esclusiva, per l’Italia, della Carisch) ed ignora totalmente le qualita’ musicali del quartetto. La composizione delle facciate e’ analoga a quella del primo “padellone”, infatti anche in questo caso troviamo 14 brani, di cui sei (come nel primo L.P.) non composti dai Beatles. Essi sono : “Please mister postman” di Holland, recentemente pubblicato in versione discoteca, il classicissimo rock ‘n roll “Roll over Beethoven” di Chuck Berry, “You really gotta hold on me” di Robinson, “Devil in her heart” di Drapkin, “Money” di Bradford-Gordy, ed infine un gioiellino melodioso di Willson, “Till there was you”, che ha un finale con un accordo maggiore di sesta, in pieno stile anni sessanta. Gli altri otto pezzi dei Beatles sono : “It won’t be long”, “All I’ve got to do”, “All my loving” (altro grosso successo), “Little child”, “Hold me tight”, “I wanna be your man”, “Not a second time”, tutti firmati da Lennon Mc Cartney, ed infine “Don’t bother me”, la prima incisione composta da George. E’ noto che John e Paul erano abituati a comporre fino dai tempi della scuola, George invece inizio’ a cimentarsi soltanto in questo periodo percio’, sia per la sua inesperienza in materia, sia perche’ faceva tutto da solo, la sua produzione e’ alquanto ridotta. Subito dopo la pubblicazione di WITH THE BEATLES usci’ il terzo 45 giri, che conteneva “I want to hold your hand” (grandissimo successo) e “This boy”, due canzoni composte ed interpretate insieme da John e Paul. I due L.P. sono molto vivaci, con stile ed arrangiamenti semplici ma non acerbi, e rivelano una bravura disarmante dei quattro ragazzi nei coretti, che riempiono i pezzi come una sezione di archi. Tale qualita’ e’ sempre stata ammirata anche nei concerti dal vivo, cosa piuttosto rara allora, anche perche’ i mezzi tecnici di quei tempi erano piuttosto limitati e non esistevano tutti i trucchi di adesso: il famoso effetto eco Binson funzionava a nastro magnetico (!), mentre fra gli amplificatori che i Beatles usavano (tutti della VOX), lo storico AC30 aveva soltanto 30 watt !!! Qualche breve notazione musicale infine, per far notare che l’armonica a bocca, utilizzata da John in tre brani del primo L.P. (“Please please me”, “Love me do”, “There’s a place”) scompare quasi nel secondo, in cui effettua solo alcune svisature in “Little child”, e per osservare i progressi di George : mentre nel primo L.P. c’e’ soltanto un suo assolo (“I saw her standing there”), in WITH THE BEATLES si esibisce varie volte (“All my loving”, “Till there was you”, “Roll over Beethoven”, “I wanna be your man”) denotando maggiore sicurezza e tutt’altra fantasia.
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da C&TL Anno 2 N. 3 - Maggio/Giugno 1997
PISTOIA BLUES ’97 Jazz and Blues revue di Massimo Baldisserri Blues! Che passione! Avevo 24 anni quando nella mia città è iniziata la più bella avventura musicale della mia vita. Era il 1980 e qualche coraggioso aveva pensato di organizzare il più grande Festival Blues mai tenuto in Europa. A 17 anni da quella prima fantastica edizione tante cose sono cambiate. Il primo Festival, “eroico” ed un po’ avventuroso, aveva innescato una reazione che ha condotto Pistoia ad una notorietà sempre crescente ed ha consolidato l’altissimo livello della manifestazione. Da quel fatidico 14 luglio 1980, non ho più perso una serata. Il Blues è la tipica musica nata nel Sud degli Stati Uniti derivata dai canti degli schiavi neri, unica forma di espressione tollerata dai bianchi, attraverso i quali raccontavano le loro angosce, le nostalgie per le terre d’origine, le storie della vita di tutti i giorni. Il contatto con la musica dell’uomo bianco ha originato un processo di “contaminazione” dei ritmi e melodie di origine africana. La musica colta europea, la musica da banda, la musica popolare hanno fornito gli elementi essenziali perché si sviluppasse una nuova musica: il Jazz, di cui il Blues è una componente di primaria importanza. Alla fine del secolo scorso molti neri americani cercavano, attraverso la musica, di affrancarsi da una vita che, nonostante non esistesse più la schiavitù da tempo, offriva ben poco. Molti impararono a suonare, perlopiù ad orecchio, gli strumenti più diffusi ed apprezzati dai bianchi e crearono orchestrine di Jazz per suonare nei locali da ballo e sbarcare così il lunario; altri si accontentarono di suonare la chitarra od il banjo accompagnando il canto di vecchi blues nati nei campi di cotone e nelle piantagioni di tabacco. Questa musica, in continua evoluzione, ha fornito le radici per i generi musicali più popolari di questo secolo come lo Swing, il Boogie-Woogie, il Rythm and Blues, il Rock and Roll, il Soul, fino ad arrivare al Rap ed alla musica attualmente in voga presso i giovani. La sezione musica del nostro Circolo, con l’intento di avvicinarsi a questi temi, ha organizzato una serie di appuntamenti culminanti con i concerti di due affermati gruppi pistoiesi. Venerdì 27 giugno nella Sala Sinodale del Palazzo dei Vescovi alle ore 21 un incontro con Maurizio Tuci sul tema “Jazz & Blues, storia e miti della musica Afroamericana” ci introdurrà, attraverso storia, aneddoti, registrazioni e filmati, alla conoscenza della musica nera americana. Sabato 28 giugno è in programma il film “”Venere ed il Professore”, una commedia del 1948 con Danny Kaye ed uno straordinario cast di musicisti quali L. Armstrong, B. Goodman, L. Hampton. Domenica 29 giugno è in programma “Mississipi adventure”, film del 1986 con musiche di Ry Cooder, Frank Frost, Otis Taylor, Sonny Terry. Lunedì 30 giugno, presso la sala Pio X, il primo concerto con la “Tiziano Mazzoni Acoustic Band”, gruppo del pistoiese Tiziano Mazzoni, apprezzata “chitarra” dalla connotazione “Folk Blues”, presente nel ’95 sul palco del Pistoia Blues Festival. Martedì 1 luglio, infine, concerto della “Sergio Montaleni Band”, funambolico chitarrista elettrico e cantante di squisita impostazione “Soul”, di vasta esperienza, nonostante la giovane età, sia in Italia che a Chicago dove ha vissuto e suonato per qualche tempo. Anche lui si è esibito al Pistoia Blues nel ’94. Questa iniziativa, che speriamo si possa ripetere nei prossimi anni, nasce con lo scopo di creare interesse in un genere musicale di straordinaria forza comunicativa e di avvicinare la gente ad un evento, come il Festival Blues, che da lustro al nome di Pistoia in Italia e nel Mondo. La realizzazione di queste serate è stata possibile grazie alla collaborazione della nostra Cassa, la quale ha messo ha disposizione il Palazzo dei Vescovi, e del Comune di Pistoia, che ha fornito il supporto tecnico per i concerti, ai quali va il nostro ringraziamento. L’ingresso a tutte le manifestazioni è gratuito.
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BILLIE HOLIDAY di Massimo Baldisserri Eleonora Fagan nacque a Baltimora il 7 aprile 1915 da genitori ancora adolescenti. Il padre, buon chitarrista jazz, aveva appena 15 anni, la madre solo 13. Le condizioni economiche della famiglia erano quelle di una qualsiasi famiglia nera dei primi anni del secolo in America. Appena possibile la bambina dovette adattarsi a fare piccoli lavoretti per arrotondare il magro bilancio familiare. Puliva le scale delle case dei dintorni, faceva piccole commissioni e faccende domestiche per i bianchi. Già dall’età di 5 anni, addormentatasi insieme alla nonna, si risvegliò con le braccia di lei chiuse intorno alle spalle. La nonna era morta e lei non riusciva a liberarsi. Fu un trauma terribile per la piccola. Dopo qualche anno la famiglia si trasferì a New York. Il padre di Eleonora venne ingaggiato dai Cotton Pickers, un’orchestra piuttosto famosa all’epoca, e fu costretto a partire per una lunga tournee. La necessità di aiutare economicamente la madre diventò sempre più impellente e fu così che riuscì, giovanissima, a farsi assumere come donna delle pulizie dalla signora Alice Dean. La casa nella quale prestava servizio era in realtà un bordello, come tanti se ne trovavano nel quartiere. Il grammofono suonava in continuazione musica Jazz per intrattenere i clienti ed Eleonora era letteralmente affascinata dalla musica che ascoltava, tanto che chiese ed ottenne di poter ascoltare i dischi di Bessie Smith e Louis Armstrong dopo il lavoro, al posto della paga. E’ questa musica che ha gettato le basi della futura cantante, che l’ha portata ad amare visceralmente il Jazz ed il Blues. Aveva 10 anni quando fu violentata da un inquilino della madre ed alla condanna dello stupratore seguì anche la decisione del tribunale di rinchiuderla in riformatorio come “ragazza corrotta” (!!!). Questo periodo la segnò per il resto della sua vita, cosicchè, tornata ad Harlem, l’estremo bisogno di soldi la portò sulla strada della prostituzione. Scoperta, aveva solo 15 anni, fu arrestata e condannata a 4 mesi. Stanca, di quella vita, decise di cercare qualcosa di diverso e così, per caso, entrò al Pod’s & Jerry, un locale della 133a strada che cercava ballerine. Fece il provino, ma fu scartata, come ballerina non ci sapeva proprio fare. Insistendo fu provata come cantante ed assunta immediatamente. Decise allora che il suo nome d’arte doveva essere Billie Holiday (dal nome della sua attrice preferita Billie Dove e dal cognome del padre Clarence Holiday). Al Pod’s & Jerry facevano spesso delle serate personaggi famosi dell’ambiente del Jazz (come Willie “the lion” Smith) e musicisti come Benny Goodman e impresari come John Hammond e Joe Glaser erano spesso in platea. Proprio Glaser si propose come manager ed Hammond e Goodman le fecero incidere il primo disco. Era il 1933. Fu in quel periodo che le venne affibbiato il soprannome di Lady, per il suo ostinato rifiuto di prendere le mance, come facevano tutte nei locali di quel tipo, alzando le sottane e prendendo le banconote lasciate dai clienti sui bordi dei tavoli, stringendole tra le gambe. Le sue indubbie doti di cantante le permisero di mantenere quel posto Nel 1935 incise con Teddy Wilson dischi di ottima fattura e di buon successo. Nel 1937 andò in tournee con l’orchestra di Count Basie, nel ’38 con Artie Shaw. Le tournees si rivelarono un disastro per le continue disciminazioni che lei, di colore, doveva subire. A lei toccava entrare dalle porte di servizio, mangiare nelle cucine anziché ai tavoli, dormire in squallidi alberghi se non addirittura negli scantinati degli stessi alberghi nei quali alloggiavano i colleghi bianchi. Si arrivò all’assurdo che nelle orchestre bianche era discriminata perché nera, mentre nelle orchestre nere, a causa del colore della sua pelle non troppo scuro, veniva discriminata perché, sotto la luce dei riflettori, sembrava bianca! Fu nella tournee con l’orchestra di Shaw che, depressa e sconfortata, cedette alle lusinghe della droga, dalla quale non riuscì più a staccarsi, se non per brevi periodi. Nonostante questo, il palcoscenico l’ha quasi sempre mostrata integra dal punto di vista artistico-musicale. Raramente i suoi spettacoli hanno espresso meno del 100% delle sue straordinarie doti interpretative. Le stesse incisioni discografiche mantengono un elevatissimo standard qualitativo per quasi tutta la sua lunga carriera. La caratteristica saliente della sua voce, poco potente, con una estensione piuttosto limitata, ma con una incredibile duttilità di toni e registri, è l’uso strumentale che ne fa. Riferisce lei stessa: “Io non mi figuro cantante. Io mi sento come se suonassi uno strumento a fiato. Cerco di improvvisare come Les Young, come Louis Armstrong, o qualcun altro che ammiro. Quello che esce fuori è ciò che sento. Non mi va di cantare una canzone così com’è. Devo cambiarla alla mia maniera E’ tutto quello che so.” Fino dagli esordi ha seguito questa sua sensibilità ed è questa la sua grandezza. Le sue canzoni sono intrise di straordinario pathos, di una vena artistica fuori dal comune, di una abilità vocale nell’uso dei registri e nel contrapporre i toni, di una tecnica innovativa, stravolgente, espressiva che rimane inalterata sia che canti uno standard, sia che interpreti un blues o che affronti un motivetto di Tin Pan Alley. Memorabili sono le incisioni che ha fatto con Lester Young in varie formazioni. La voce di Billie ed il languido sax di Lester si fondono in maniera magistrale, non c’è più differenza tra linea strumentale e linea vocale. La grande affinità musicale dei due artisti, suggellata da una tenera amicizi, durerà per tutta la vita. Dopo la tournee con Artie Shaw, Lady Day (come l’aveva ribattezzata Lester Young) fu scritturata al Cafè Society di New York, dove si esibì a lungo, e quindi cantò a Chicago e Los Angeles. La sua fama si consolidò ed i guadagni salirono vertiginosamente. Purtroppo però, la droga era ormai la inseparabile compagna della sua vita. Nel ’46 girò con Louis Armstrong il film “New Orleans”, relegata, in verità, ad una parte secondaria di cameriera. Anche in questa occasione, esibirsi insieme al suo idolo di sempre, la mortificazione per il trattamento ricevuto, cancellò la gioia di quell’incontro. Nel ’47 fu di nuovo arrestata per droga. Dopo un anno di carcere ebbe la sola possibilità di esibirsi nei teatri di New York, dato che le autorità di polizia le avevano ritirato la licenza (la “cabaret card”) che le consentiva di cantare nei locali notturni. Due anni dopo subì un altro arresto, ma, al processo, la mandarono assolta. Abbandonata senza un soldo dal manager, fu aiutata a risollevarsi da Norman Granz che le fece incidere numerosi dischi. Seguì una lunga tournee in Europa, costellata di grandi successi. Nel ’58, dopo l’ennesimo arresto e l’abbandono del suo ultimo marito, tornò in Europa, ma non fu un ritorno fortunato. Orma la voce aveva perso tutte le caratteristiche di duttilità, variazione dei timbri, espressività degli anni migliori. Si era fatta più secca, spesso roca, aveva perso ancora in estensione. Le ultime incisioni hanno tutta la drammaticità di una voce ormai logora, sorretta solo da un grande mestiere e dalla vena artistica ma declinata della cantante. Vi si riconoscono ancora i segni di una sensibilità musicale ancora intatta ma le vicissitudini e le tribolazioni patite nel corso di tutta la vita inesorabilmente hanno avvilito lo strumento e distrutto la persona. La costante ricerca d’amore di Billie l’ha portata, al contrario, a imbattersi in personaggi di ogni tipo che l’hanno sfruttata e poi abbandonata, manager senza scrupoli che l’hanno spremuta fino all’osso, spacciatori che le vandevano droga a 10 o 20 volte il prezzo usuale; anche la giustizia ha forse infierito oltre misura, specialmente nell’infanzia e nell’adolescenza. Sposata tre volte e tre volte abbandonata, con il padre sempre fuori per gli impegni con le orchestre e la madre sempre occupata a lavorare, non ha ricevuto quegli affetti necessari per un sviluppo armonico della propria personalità. Una canzone, considerata il suo capolavoro, più di ogni altra esprime la desolazione di quegli anni e l’amarezza interiore che provava in quanto donna nera. STRANGE FRUIT Southern trees bear a strange fruit Blood on the leaves and blood on the roots..... FRUTTO STRANO Gli alberi del Sud hanno uno strano frutto Sangue sulle foglie e sangue alle radici.... “Lo strano frutto che sta appeso all’albero del Sud è il corpo di un negro linciato. Billie ha scritto la musica di questo brano”
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da C&TL Anno 2 N. 4 - Settembre/Ottobre 1997
I long playng dei BEATLES 2^ puntata di Giorgio De Vita Dopo alcuni 45 giri pubblicati nei primi mesi del 1964, il 7 luglio esce in Inghilterra il terzo L.P., contemporaneamente al primo film interpretato dai quattro di Liverpool. I due lavori hanno lo stesso titolo, “A hard day’s night”, infatti il disco contiene la colonna sonora della pellicola. In Italia il long playing viene pubblicato qualche giorno dopo, il 29 luglio, con etichetta PARLOPHONE, distribuzione CARISCH e sigla PMCQ 31504. La copertina e’ formata da 20 fotogrammi in bianco e nero, che ritraggono i Beatles, disposti in 4 file, ognuna formata da 5 fotogrammi (una fila dedicata a ciascuno dei componenti). Dopo alcuni 45 giri pubblicati nei primi mesi del 1964, il 7 luglio esce in Inghilterra il terzo L.P., contemporaneamente al primo film interpretato dai quattro di Liverpool. I due lavori hanno lo stesso titolo, “A hard day’s night”, infatti il disco contiene la colonna sonora della pellicola. In Italia il long playing viene pubblicato qualche giorno dopo, il 29 luglio, con etichetta PARLOPHONE, distribuzione CARISCH e sigla PMCQ 31504. La copertina e’ formata da 20 fotogrammi in bianco e nero, che ritraggono i Beatles, disposti in 4 file, ognuna formata da 5 fotogrammi (una fila dedicata a ciascuno dei componenti). Il “padellone” contiene 13 pezzi, tutti composti da Mc Cartney-Lennon, e si apre con la canzone “A hard day’s night”, un beat dal ritmo molto sostenuto, con un breve assolo di George. Dello stesso genere anche il brano successivo “I should have known better”, in cui protagonista principale e’ l’armonica a bocca. Splendido, a seguire, “If I fell”, un lento cantato a due voci : queste tre canzoni hanno fatto il giro del mondo, come pure, sempre sullo stesso lato A, “And I love her” (slow) e “Can’t buy me love” (rock). Completano il lato le meno famose “I’m happy just to dance with you” e “Tell me why”. Sul lato B troviamo “Any time at all”, “I’ll cry instead”, “When I get home”, ma soprattutto “Things we said today”, “I’ll be back” ed infine “You can’t do that”, che John definisce il suo tentativo di accostarsi a Wilson Pickett. Abbondano i soliti coretti perfetti e le canzoni continuano a parlare soltanto d’amore; John canta da solo “When I get home”, “Any time at all” e “I’ll cry instead”, mentre, in coppia con Paul, “A hard day’s night”, “If I fell” e “I’ll be back”. Paul canta da solo “And I love her” e “Things we said today”. George interpreta “I’m happy just to dance with you”. Le altre sono cantate in coro da John, Paul e George. Continua la moda della recensione in italiano sul retro della copertina, cosa che avevamo gia’ messo in risalto parlando dei primi due L.P., ma questa volta sara’ l’ultima : nell’editoriale non si fa una sola parola di commento ai brani, ma si mette in luce la capacita’ dei Beatles di creare mode e tendenze. Dopo nemmeno cinque mesi dall’uscita di questo long playing Brian Epstein e George Martin, rispettivamente manager e produttore del complesso, decidono di sfruttare il momento d’oro ed alla fine di novembre, nello stesso giorno, pubblicano il quarto L.P., che s’intitola “Beatles for sale”, ed un 45 giri che contiene “I feel fine” e “She’s a woman”. Quest’ultimo disco rimarra’ famoso perche’ e’ il primo esempio in cui i Beatles usano effetti speciali saturando gli amplificatori con le chitarre elettriche (all’inizio di “I feel fine”) : ne viene fuori un rumore (oppure suono ?) che ispirera’ gli Who ed addirittura Jimi Hendrix. Per quanto riguarda invece il long playing e’ doveroso dire che questa edizione pare scaturire piu’ dalla bramosia di registrare un altro successo commerciale piuttosto che da nuove motivazioni di carattere artistico. Di nuovo sei canzoni del disco non sono composizioni dei Beatles : “Rock & roll music” di Chuck Berry e “Mr. Moonlight” di Johnson, cantate da John, “Kansas City” di Lieber-Stoller, cantata da Paul, “Words of love” di Holly, cantata da entrambi; inoltre “Honey don’t” e “Everybody’s trying to be my baby”, ambedue di Perkins, cantate rispettivamente da Ringo e George. Fra gli otto brani composti dal famoso duo, “Every little thing”, “I don’t want to spoil the party”, e “What you’re doing” non sono sembrate all’altezza della fama dei compositori; “No reply” “Baby’s in black” e “I’ll follow the sun” (un gioiello, secondo me) hanno avuto un discreto successo, mentre soltanto “I’m a loser” e “Eight day’s a week” hanno venduto molto, probabilmente aiutate in cio’ anche dal 45 giri che le conteneva. In tutti questi cinque pezzi si alternano a cantare John, Paul e George, con alcune parti in cui le singole voci sono registrate, all’unisono, su due tracce distinte, creando artificialmente l’effetto di un duo. Quasi scomparsa l’armonica a bocca, quasi inesistenti gli assoli, in definitiva questo e’ un disco che si colloca senz’altro ad un livello musicale inferiore rispetto agli altri, mentre conserva intatta la sua importanza dal punto di vista del valore collezionistico. Ben altra cosa sono i long playing che usciranno nel 1965 (HELP e RUBBER SOUL) : essi saranno oggetto della prossima puntata.
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da C&TL Anno 2 N. 4 - Settembre/Ottobre 1997 I ROLLING STONES 1^ puntata di Massimo Baldisserri Nei primi anni ’60 i giovani inglesi andavano matti per la musica americana, una passione nata nel decennio precedente quando non c’era ragazzo che non comprasse i dischi di Elvis, Chuck Berry o Jerry Lee Lewis. Ma proprio in quegli anni, alcuni eroi dei teen-agers inglesi erano in declino, altri avevano interrotto l’attività, altri, come Elvis, si erano buttati sul “commerciale”. In pratica non esistevano più artisti che rappresentassero le aspettative musicali dei vecchi fans. I Beatles colmarono questo vuoto con una musica che, pur traendo le proprie radici dal Rock & Roll e dal Rhytm & Blues, era profondamente innovativa, di presa immediata, capace di scatenare nuovi entusiasmi tra le giovani generazioni. I Beatles dei primi anni davano l’impressione dei ragazzi di buona famiglia, forse con i capelli un po’ lunghi, ma gentili, simpatici, avulsi da manifestazioni provocatorie o eccessive. In pratica piacevano allo studente de liceo, alla casalinga, al barbiere, all’impiegato. Della provocazione e dell’anticonformismo si servirono invece abbondantemente i Rolling Stones. Gli eccessi dimostrati fino dagli esordi, il comportamento contrario alle regole sociali, le ripetute provocazioni al conservatorismo inglese furono però più uno stile adottato per esigenze di immagine e caldeggiato dal manager del gruppo, che un aspetto genuino dei componenti della band, fu più una scelta di campo antitetica all’immagine dei primi Beatles, che una manifestazione di spontaneità. A questo proposito Mick Jagger, fondatore e leader storico del gruppo, dichiarò in una intervista: “Non c’è peso più grande da sopportare che dover essere come il pubblico si aspetta che tu sia”. Il gruppo, nato nel ’62, inizialmente comprendeva Mick Jagger (voce solista), Brian Jones (chitarra e armonica), Keith Richards (chitarra), Dick Taylor (basso), Jan Stewart (piano) e vari bateristi che si succedevano occasionalmente. In quell’anno, all’Ealing Jazz Club di Londra, il sabato sera si esibiva Alexis Korner col suo gruppo di Rhythm & Blues (la Blues Incorporated Band). Con la band era Brian Jones, un biondino con i capelli a caschetto, intento a dare il meglio di sé con la chitarra e l’armonica. Uno di quei sabati si trovarono lì anche Mick e Keith e notarono l’impegno e lo stile di quel giovane musicista. Aspettarono la fine del concerto per conoscerlo e scambiare con lui qualche parola. Brian era un grande appassionato e conoscitore del R&B, ma la sua vera passione era il Blues (il suo idolo era il bluesman Elmore James). I tre si ritrovarono a parlare lo stesso linguaggio musicale, la perfetta sintonia di idee e progetti spinsero i due futuri Stones a chiedere a Brian di unirsi a loro con la convinzione di creare qualcosa di importante. Jagger e Richards si conoscevano dai tempi della scuola e spesso si ritrovavano da amici comuni ad ascoltare dischi di importazione. Avevano lo stesso background musicale e la stessa passione per Big Bill Broonay e Robert Johnson, per Chuck Berry e Bo Diddley. Per un certo periodo si erano persi di vista, ma quando Keith imparò a suonare la chitarra, finirono per ritrovarsi fianco a fianco in qualche complessino di studenti. Ma per loro la musica era una cosa seria, un progetto da coltivare senza limiti, un modo privilegiato per esprimere se stessi. L’ingresso di Brian nel gruppo fu seguito da altri cambiamenti. Qualche tempo dopo il suo arrivo, fu sostituito il batterista con Charlie Watts, che già aveva suonato alcune volte con loro e che aveva lasciato la Blues Incorporated di Korner. Anche Dick Taylor lascio il posto a Bill Wyman, ingaggiato attraverso un annuncio sul Melody Maker (una rivista per musicisti, vero e proprio “vangelo” per i gruppi). Wyman, di qualche anno più vecchio degli altri, era piuttosto diverso da Mick e Keith, ma si dimostrò in “sintonia” col feeling del gruppo. Mick Jagger, l’istrione, l’estroverso, l’anima ribollente; Keith Richards più fragile, ma degno compare di Mick; Brian Jones, l’insicuro, lo scostante, sempre in competizione con Jagger per la leadership della band; Bill Wyman, il taciturno, sempre in disparte sul palco, lontano dai riflettori, signore nei modi, l’anti Stones per eccellenza; Charlie Watts, pacato e tranquillo come Bill, il collante del gruppo. Questi cinque ragazzi, dai caratteri così diversi diedero vita al gruppo che da più di 30 anni è sulla cresta del’onda, incastonato tra le leggende del rock. Il 12 luglio del ’62, al Marque Club di Londra, tennero il loro primo concerto. Suonarono pezzi di Muddy Waters, Bi Diddley, Jimmy Reed. Proprio al grande bluesman Muddy Waters si deve il nome del complesso. Fu Brian che, prendendo spunto da una sua famosa canzone, propose agli altri il nome “Rolling Stones”. Come sovente accade agli inizi, non fu facile trovare ingaggi nei locali, tuttavia la bontà della loro musica e il livello delle loro esibizioni permise loro di svolgere una serie sempre crescente di concerti. Nel ’63 il gruppo si era costruito un nome abbastanza conosciuto ed uno stuolo di fans di tutto rispetto, dovuti soprattutto alla grande carica di energia che riuscivano a trasmettere. Non desti meraviglia che, nel mesi di giugno al concerto di Richmond, vollero assistere addirittura i Beatles, raggiunti dalla fama del gruppo. Dopo il concerto i quattro di Liverpool vollero incontrare gli Stones, cosa che fecero nell’appartamento di Jagger, incuriositi dal magnetismo e dalla vitalità che esprimevano. Qualche tempo dopo Andrew Loog Oldham, giovane ex promotion-man dei Beatles ai tempi di “please Please Me”, si propose come manager a Jagger e soci e perfezionò un contratto di noleggio dei diritti con la Decca (la casa discografica rivale della Emi che aveva rifiutato i Beatles!). La prima incisione fu “Come On” di Chuck Berry e fu effettuata nel giugno di quell’anno. In verità non suscitò grandi entusiasmi rimanendo in posizioni anonime di classifica (al 1° posto c’era la Beatlesiana “From Me to you”) e l’impressione generalizzata era che il gruppo in studio perdesse gran parte dello smalto solitamente espresso dal vivo. I crescenti consensi che i concerti suscitavano, convinsero Oldham della necessità di riprovare, cercando un brano adattto, con un nuovo 45 giri. Fu proprio il manager, durante una cena al Variety Club, che incontrò John Lennon e Paul McCartney i quali accettarono di buon grado di recarsi allo Studio 51 dove si dovevano esibire i Rolling Stones. Fu così che John e Pauil, risolvendo l’indecisione dei colleghi rivali, offrirono loro una canzone che avevano appena finito di scrivere. Nel novembre del ’63 uscì “I wanna be your man”. Questo nuovo disco ebbe maggior fortuna del precedente e consolidò la fama dei cinque londinesi che trovarono finalmente ingaggi e date per i concerti senza troppi problemi. Il loro terzo 45 giri “No Fade Away” raggiunse il terzo posto in classifica e manifestazioni di fanatismo e di isteria collettiva cominciarono a raggiungere livelli paragonabili alla Beatlesmania. Nei primi mesi del ’64 vide la luce il primo LP semplicemente intitolato “Rolling Stones”, un album fortemente impregnato di R&B e di soul, perfettamente allineato con lo spirito musicale del gruppo. Arrivò al numero uno in poche settimane. Nello stesso anno le “Pietre rotolanti” parteciparono al programma TV della BBC “Top of the Pops”, suonarono a Wembley insieme ai Beatles, decisero di giocare, con alterne fortune, la carta del tour americano. La fame della tournee oltreoceano accrebbe gli estimatori del gruppo ed al’aereoporto di Heatrow si ritrovarono orde di fans scatenati a dare il benvenuto ai loro idoli. La tournee americana, sia pure non completamente esaltante, aveva accresciuto l’esperienza della band e aveva prodotto un singolo, registrato negli studi della Chess di Chicago, che si rivelò un clamoroso successo. “It’s all over now” si insediò al primo posto in Inghilterra per parecchie settimane. Era forse nato il gruppo capace di sfidare lo strapotere dei quattro di Liverpool ? Fine Prima Parte
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da C&TL Anno 3 N. 2 - Maggio/Giugno 1998
I long playng dei BEATLES 3^ puntata di Giorgio De Vita Nel 1965 i Beatles sono ormai all’apice della fama e girano continuamente il mondo per i loro concerti dal vivo. E’ l’anno in cui approdano anche da noi, in giugno, per l’unica tournee italiana, con tappe a Milano (Vigorelli), Genova (palazzo dello sport) e Roma (teatro Adriano) : presentano Lucio Flauto e Rossella Como. Pochissimi giorni prima i quattro giovanotti sono stati insigniti del titolo di “baronetto” dalla regina. Il giorno di ferragosto si tiene il loro concerto piu’ memorabile, allo Shea Stadium di New York, davanti a quasi sessantamila persone. Ma veniamo alla produzione discografica di quell’anno. A parte “The Beatles in Italy” (etichetta Parlophone PMCQ 315006) tratto dai concerti italiani, che rappresenta piu’ che altro una curiosita’ ed un ricordo, il 6 dicembre la Parlophon pubblica in Italia il long playing “Help”, dal titolo dell’omonimo film. L’album, che certamente non puo’ essere considerato una pietra miliare dal punto di vista musicale, chiude in pratica il primo ciclo, quello delle canzoni scritte di getto, con arrangiamenti semplicissimi e grande risalto riservato ai famosi coretti di cui abbiamo gia’ parlato. La copertina ritrae i protagonisti in abiti da sci, con scarponi legati e pantaloni elasticizzati, piu’ qualche strano cappello e mantello in stile londinese, tutto rigorosamente blu. L’opera contiene 14 brani, 7 per lato, di cui due soltanto non sono composti da Lennon-Mc Cartney o Harrison. Tre i brani storici, tutti di Lennon-Mc Cartney : “Help”, che apre il disco, “Ticket to ride”, gia’ pubblicata in 45 giri, che chiude il lato A, e “Yesterday”, penultima canzone dell’LP,. In questo brano, scritto quasi interamente da Paul, che canta e suona la chitarra acustica accompagnato da un quartetto d’archi, si abbandona l’allegria e la spensieratezza, abitualmente presenti nei testi , per lasciar posto alla tristezza, ed a considerazioni amare sugli affetti perduti. Il primo lato e’ completato da “I need you” di George Harrison, brano in cui fa capolino anche una tastiera, e da “The night before” (anch’essa stampata in 45 giri), “You’ve got to hide your love away”, “Another girl” e “You’re going to lose that girl”. La seconda facciata si apre con “Act naturally”, di Morrison-Russel, una delle rare occasioni in cui viene dato spazio alla voce di Ringo (che certamente non e’ Frank Sinatra) e prosegue con “It’s only love”, “You like me too much”, di George, “Tell me what you see” (dove compare un piano elettrico dal sound piuttosto rudimentale), “I’ve just seen a face” ed infine “Dizzy miss Lizzy”, di Williams, in cui John sfodera il meglio delle sue qualita’ canore, tanto da eseguirlo molto spesso durante i concerti. Nello stesso anno esce anche il LP “Rubber soul” che da noi pero’ viene pubblicato il 14 gennaio del 1966 con etichetta Parlophon e sigla PMCQ 31509. Sul retro della copertina compare il sottotitolo “BEATLES 7°” nonostante sia il sesto LP distribuitoin Italia : cio’ e’ dovuto al fatto che, in Inghilterra, era uscito in precedenza anche il LP “Beatles first”. La copertina ritrae i 4 ragazzi in primo piano, con le acconciature gia’ lunghe. Stavolta i brani sono composti tutti dai Beatles : le eccezioni alla “regola del Lennon-Mc Cartney” sono “Think for yourself” e “If I needed someone”, di George, e “What goes on”, che apre il lato B, scritta anche da Ringo (il quale, naturalmente, canta). Oltre a questi 3 brani, non molto noti, ve ne sono altri 4 dello stesso tenore (“You won’t see me”, “The word”, “I’m looking through you” e “Wait”), ma gli altri 7, che completano il disco, hanno riscosso ben altri successi. Essi sono nell’ordine : “Drive my car”, con cui Paul Mc Cartney apriva i concerti nella sua piu’ recente tornee italiana (due le esibizioni a Firenze), “Norwegian wood” con la prima apparizione del sitar nella musica pop-rock, suonato da George, “Nowhere man”, l’arcinota “Michelle”, “Girl”, “In my life” in cui il produttore discografico George Martin suona il piano, ed infine “Run for your life” (il retro di “Michelle” nel 45 giri). Dunque anche in questi due dischi la perfezione delle voci ha ancora il sopravvento sugli strumenti, e le canzoni continuano a parlare d’amore, ma in maniera piu’ profonda, tanto che i testi di “Norwegian wood” e di “Nowhere man” sono considerati poesie.
Nel secondo LP, pero’, gli
arrangiamenti sono piu’ studiati ed e’ evidente la ricerca di nuove sonorita’. Si fanno
sentire le prime influenze indiane, che toccheranno il loro culmine nell’LP successivo,
“Revolver”, del 1966
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da C&TL Anno 3 N. 3 - Ottobre/Novembre 1998
LUCIO BATTISTI di Giorgio De Vita In questo periodo i giornali e le riviste sono pieni di articoli su Lucio Battisti, per ricordare la sua opera. Siamo perfettamente consapevoli di non essere giornalisti, pero’ vorremmo esprimere ugualmente le nostre considerazioni, che saranno probabilmente meno professionali rispetto ad altre ben piu’ autorevoli, ma senza dubbio genuine. La generazione degli attuali quarantenni e cinquantenni, negli anni dell’immediato post ‘68’, ha vissuto l’”epoca Battisti” in un periodo topico della propria esistenza, cioe’ quello del liceo, dell’universita’, delle amicizie, degli amori piu’ o meno giovanili, delle prime esperienze di vita indipendente; insomma, in una parola, dell’adolescenza. Inevitabilmente questa considerazione condiziona i nostri giudizi, riconducendo la mente a tempi che, di regola, vorremmo tutti rivivere, ma adesso cercheremo di svincolarci da questi aspetti emotivi, tenendoci fuori dalla retorica. Dunque, mi sono domandato, a distanza di tanti anni, perche’ ogni volta che appariva Lucio Battisti in tivu’ restavamo incollati al piccolo schermo, e poi perche’ ogni volta che veniva pubblicato un nuovo disco eravamo impazienti di ascoltarlo, e perche’ in auto non mancavano mai le cassette di Lucio, perche’ alle feste fra amici si consumavano i solchi delle sue canzoni. Gran parte del merito, indubbiamente, va attribuito al paroliere Giulio Rapetti (Mogol) il quale, a volte in prosa, a volte in poesia, ci raccontava scene di vita quotidiana (“In un grande magazzino una volta al mese ... parlar di surgelati, rincarati ...”) ed esperienze intime (Emozioni, I giardini di marzo, La luce dell’est ecc. ecc.) con uno stile semplice, pacato, evitando termini “forti” anche per gli argomenti scottanti, privilegiando le sensazioni interiori, le emozioni, l’aspetto lirico dei temi trattati. Come esempio possiamo citare la canzone “Anche per te”, in cui si parla in maniera evidente, ma in modo diverso dal solito, di una donna che esercita il “mestiere piu’ antico”. Usualmente siamo sempre stati abituati al disprezzo verso quel mondo, invece in questo caso si racconta della protagonista che “... mette i soldi accanto a lui, che dorme ...”, e la si immagina intenta a vestire il figlio, accompagnarlo a scuola ed andare al lavoro. Non si parla di mercimonio; si dice invece che “ ... aggiunge ancora un po’ d’amore a chi non sa che farne ...”. Infine questa peccatrice entra in chiesa (!!!) e prega, piano : l’accostamento, oltre che innovativo, e’ da considerare quasi impensabile per quell’epoca. Ne viene fuori un quadro struggente, umano, ed il nostro atteggiamento passa dal disprezzo (o almeno, dal distacco) alla comprensione, alla tenerezza, alla tristezza, quasi al rispetto, patetico, di questa figura di mamma. Battisti, dal punto di vista strettamente tecnico-musicale, non era un professore di conservatorio, ed alcune sue “carenze” facevano storcere la bocca ai puristi. A causa delle sue squadrature musicali, a volte alcuni brani hanno rischiato di non essere pubblicati, ma qualche manager lungimirante e meno conformista ha intuito che questi difetti erano in fondo soluzioni originali, caratteristiche di un particolare senso artistico, ed ha convinto la casa discografica a stampare i dischi, che hanno avuto quasi sempre grossi successi di vendita. Comunque egli ha avuto senza dubbio il merito di adattare musica ed arrangiamenti alle atmosfere create dai testi di Mogol. Cito, anche in questo caso, il primo esempio che mi viene in mente, e mi riferisco al brano “Emozioni” : e’ una vera e propria poesia che parla, con rassegnazione e tristezza, della solitudine, della difficolta’ di vivere in mezzo agli altri, di essere noi stessi. In un siffatto contesto il “beat” delle percussioni avrebbe probabilmente creato un contrasto stridente, e allora Lucio ha tolto completamente la batteria, riempiendo i vuoti con una sezione di archi, riuscendo cosi’ a creare, secondo me, l’atmosfera giusta. E d’altra parte non si possono mettere in discussione le sue qualita’ di musicista originale se si considera che si sono rivolti a lui vari artisti, fra cui Bruno Lauzi (L’aquila, E penso a te), i Ribelli (Per una lira), Mina (Io e te da soli, Amor mio, Insieme), i Dik Dik (Il vento), Patty Pravo (Il paradiso), l’Equipe 84 (29 settembre, Nel cuore nell’anima), i Rokes (Io vivro’ senza te), i Formula 3 (Eppur mi son scordato di te), e poi ancora Mino Reitano, Wilma Goich, Adriano Pappalardo, ed altri ancora. Tuttora le sue composizioni sono reinterpretate dai cantanti di oggi, ed alcuni cercano proprio di imitare il suo stile ed anche la sua voce. Gia’, la sua voce. Anche come cantante non si puo’ negare che Battisti avesse dei limiti evidenti, pero’, con il suo timbro particolare, riusciva a farsi riconoscere sin dalle prime sillabe. Questo e’ uno dei casi in cui si conferma che, a volte, puo’ essere piu’ importante realizzare qualcosa di originale piuttosto che cercare di avvicinarsi alla perfezione, magari limitando la propria inventiva e la spontaneita’. Allora, considerando tutte queste pecche, mi sono domandato come mai Battisti piacesse tanto ugualmente, me compreso. Senz’altro, lo abbiamo gia’ detto, per i testi di Mogol, poi per la semplicita’ delle melodie, facilmente orecchiabili, e per la sensibilita’ nell’organizzare gli arrangiamenti; pero’ penso che il motivo, almeno nel mio caso, sia anche un altro, e mi spiego. Celentano si presentava al pubblico con pantaloni a campana, camicie eccentriche, scarpe bianche e nere, mosse studiate per fare spettacolo. Mina, sempre truccatissima e con acconciature elaborate, s’infilava in abiti fascianti che la facevano sembrare quasi una novella Nefertiti, o Cleopatra. Insomma, si trasformavano, recitavano il ruolo di “personaggi” costruiti per lo spettacolo, artefatti. Li sentivamo diversi, lontani da noi e dal nostro mondo quotidiano. Battisti no. Considerata l’epoca, era vestito come uno di noi, pettinato normalmente, e non si atteggiava a personaggio, non recitava, non voleva sbalordire, sembrava anzi naturale, spontaneo, un po’ timido, e quasi pareva scusarsi per essere li’ davanti alle telecamere, davanti a noi. Mai gesti di trionfo, per trascinare ed eccitare il pubblico : avrei potuto essere io, con gli amici, al posto suo (si fa per dire...). La sua semplicita’ conquistava i ragazzi di allora ed i loro genitori, ed ancora oggi Battisti piace ai miei figli, che lo ascoltano volentieri, cantano spesso le sue canzoni, e si fermano all’improvviso, incuriositi, quando capita di vedere un vecchio spezzone di una sua apparizione televisiva, osservandolo attentamente. Ho parlato di tre generazioni, un’eccezione per il mondo della musica leggera. Un’ultima notazione : la primavera scorsa ci siamo ritrovati una sera, fra colleghi ed amici, per fare un po’ di musica. Ebbene, in tempi non sospetti, Sandro ha cantato “Il tempo di morire” e “Dieci ragazze”, la Cecilia ha scelto “Insieme”, altri ospiti hanno improvvisato un duetto per “Pensieri e parole”, ed io mi sono divertito davvero ad accompagnarli (forse anche, un po’, per motivi sentimentali), perche’ per me e’ sempre un piacere suonare Battisti che, fra l’altro, ha anche il pregio di non essere musicalmente difficile e complicato. A lui sono legati alcuni nostri bei ricordi di gioventu’, che adesso acquistano anche un velato alone di tristezza,
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