Raccolta articoli C&TL

                                   

 

                                                                   La pagina della cultura

 

 

 

La pagina della cultura è una delle rubriche “fisse” del nostro notiziario. In ogni numero vengono affrontati argomenti che hanno un interesse di natura culturale: dalla recensione di nuovi libri alla presentazione di mostre - rassegne - esposizioni, dai commenti su temi di attualità culturale ai consigli su spettacoli teatrali.

La rubrica è curata da una firma giovane ma già nota del panorama culturale nazionale: Danilo Breschi (figlio del nostro collega Nedo), laureato in Scienze politiche e autore di saggi, di recensioni e critiche per alcune riviste e pubblicazioni di carattere nazionale.

 

da C&TL -Anno 1 N. 1 Giugno 1996

 

KUNDERA E LA LENTEZZA di Danilo Breschi

 E’ difficile unire la qualità alla quantità, e così avere un autore di best-sellers che sia anche uno tra i maggiori scrittori attualmente in circolazione è cosa rara. Con Milan Kundera questo binomio trova piena realizzazione e il suo libro più famoso, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, ne è la conferma. Lo scrittore boemo, da anni residente in Francia, ama mescolare il piacere della narrazione con in gusto per la riflessione filosofica.

Questo medesimo stile ritorna nel suo ultimo romanzo, “La lentezza”. Ancora una volta Kundera si rivela capace di mettere in scena numerosi personaggi e di gestire le loro storie separatamente, lungo binari che talvolta possono incontrarsi. Anche qui, come nella vita, il caso ci mette lo zampino. Leggere “La lentezza” è come guardare una giostra in cui figure multicolori cambiano forma ad ogni giro, poiché la trama delle loro esistenze si dipana nel tempo. Attrazione, stupore e repulsione sono gli effetti provocati dai continui salti che Kundera compie da un registro stilistico all’altro.

Così il lettore passa da una sintetica, ma meditata definizione del concetto di edonismo ad una grottesca e divertita descrizione di scene di erotismo simulato. Comunque, non si corre alcun rischio di perdere il filo del racconto in un libro che si lascia leggere tutto d’un fiato.

La noia è bandita, mentre l’ironia abbonda. Un’ironia che si rivolge contro le manie di una società divorata dal demone della velocità, in cui ciò che conta è raggiungere il risultato nel minor tempo possibile. Altra ossessione, in un Occidente moralista dominato dai mezzi di comunicazione di massa, è quella di apparire sempre e comunque, in una gara infinita a chi si mostra più generoso, esuberante e prodigo di iniziative umanitarie.

Ma questi sono solo alcuni dei temi toccati dal libro, che offre ampio materiale su cui meditare. Non ultimo, l’evoluzione (o involuzione?) del rapporto amoroso, ed in particolare della seduzione e delle sue tecniche. Anzi è proprio attorno a questo argomento che viene costruito l’asse centrale del romanzo.

La storia di una notte d’amore tra una dama e il suo giovane cavaliere, nella campagna parigina di un Settecento libertino, torna alla mente dello scrittore in viaggio in quegli stessi luoghi a distanza di un paio di secoli. Tra realtà e finzione, nasce la voglia di stabilire un parallelo e di raccontare un’analoga vicenda di seduzione, che dovrebbe consumarsi anch’essa nell’arco di una notte. Ma notiamo subito come il tempo fisico, che è innegabilmente identico, composto dalle solite ore di sessanta minuti, risulti magicamente dilatato dai modi dell’estetica libertina. Come mai?

Azzardiamo due ipotesi: innanzitutto, l’importanza assegnata ad una ritualità che richiede i suoi tempi, così come il desiderio che, dopo le prime fiammate, ha bisogno di bruciare a fuoco lento per toccare il culmine dell’intensità. Secondo ingrediente: il silenzio che dolcemente avvolge la delicatezza dei gesti degli amanti e sancisce la riservatezza del dopo.

In fondo, le due storie di seduzione, così lontane fra loro nel tempo, parlano le lingue di due civiltà dai costumi e dai ritmi profondamente diversi. E un consiglio implicito affiora da queste pagine: non affannarti là dove puoi farne a meno, rallenta il passo e distilla il piacere. Ne godrà il corpo, il pensiero respirerà a pieni polmoni, e forse avremo un po' meno volgarità ed esibizionismo.

 

da C&TL -Anno 1 N. 2 Luglio 1996

BATTISTI METAPOLITICO di Danilo Breschi

Sottotitolo: Perdura il suo mito. Le sue canzoni affascinano ogni nuova generazione, quasi esclusivamente per le emozioni che comunicano. Eppur ci  sono anche idee e concetti.

Sempre sulla cresta dell’onda, le sue canzoni continuano ad ispirare libri come la biografia scritta da Tullio Lauro e Leo Turrini (Emozioni, Zelig editore), di godibilissima lettura e di cui, peraltro, ci avvarremo per alcune citazioni; ma offrono anche materiale per programmi televisivi, come quello trasmesso nella passata stagione su Canale 5 (Mina contro Battisti). A cosa si deve questa persistenza dell’Assente nel cuore dei suoi coetanei, come dei loro figli?

Giornalisti e critici si sono arrovellati e spesso inutilmente interrogati sul perché. Inutilmente perché la risposta è presto data e tutti, critici compresi, la conoscono. La prima virtù della produzione battistiana sta nella forza della sua musica, nell’originalità di certe soluzioni sonore, risultato di un talento naturale disciplinato da un meticoloso lavoro da artigiano delle note. Si pensi ad una canzone come I giardini di marzo che, nel 1972, anticipa ogni prova da cantautore intellettualmente raffinato come dimostra l’intensa reinterpretazione del brano offerta da Eugenio Finardi nella trasmissione sopra menzionata. E poi c’è la determinazione a non adagiarsi mai sul proprio successo, rifiutando di confezionare motivi prodotti in serie, sicuro della propria fetta di mercato.

La ricerca non si è mai esaurita, almeno fino a La sposa occidentale (1990) compresa. Gli ultimi due lavori (C.S.A.R. e Hegel) rappresentano, a nostro avviso, una fase di stasi e di ripetizione. Ma ciò che è stato composto da Battisti in circa venticinque anni non ha eguali nel panorama musicale italiano, sperimentando ogni genere, spaziando dal beat al rythm’n’blues, dalle melodie latinoamericane ai componimenti strumentali per orchestra, approdando all’elettronica. Sincretismi musicali che precedono un David Sylvian, come testimoniano le risonanze siderali di Abbracciala abbracciali abbracciati (da Anima latina, 1974).

Su quelle note si inseriscono in una simbiosi perfetta le parole di Mogol, più di ogni altro capace di dar forma scritta a ciò che gli accordi di Battisti dicono in altro modo. D’altronde “ogni musica che non dipinge nulla è un rumore”, osservava giustamente D’Alembert. Due linguaggi si fondono in uno. Tutto questo assicura la longevità, se non l’immortalità.

Cultura popolare, certo, ma sempre cultura. Storie di sentimenti, d’amore gioioso o triste. Ma non ci sono solo emozioni universali nei testi delle canzoni di Battisti. Così rivolgiamo un invito, non certo ai battistiani doc, affinché si presti attenzione a certe idee espresse in alcuni brani, specialmente quelli degli anni Settanta.

“Con le mie canzoni io trafiggo le consuetudini”, diceva Battisti nel 1973, e lo faceva con le note, ma pure con le parole. A questo punto si dirà che l’articolo dovrebbe riguardare Mogol, l’autore dei testi. Difficile, però, dire se l’autonomia fra musica e testo, al momento della composizione, fosse sempre assoluta. Di sicuro Battisti le ha cantate ed è lecito pensare che fra i due vi fosse una certa affinità di idee. Anche per certe interviste rilasciate negli anni Settanta dal musicista di Poggio Bustone. Comunque a noi non interessa più di tanto parlare del mito, quanto della “filosofia” sottesa alle sue canzoni. Non ci interessa nemmeno attribuire a Battisti e Mogol la volontà di destinare messaggi al grande pubblico, ma affermare che in album come Il nostro caro angelo (1973) o Anima latina sale il canto di uno stile di vita affascinante, poetico e, a suo modo, metapolitico. Nel senso che vi sono delle scelte di campo in quelle frasi fuse con le note, la voglia di dire senza mezzi termini ciò che piace e ciò che disgusta di questo nostro mondo, della società nella quale viviamo.

Nessun partito, nessuna ideologia. Tutto con poesia, spesso con ironia. Ed ecco composizioni senza una parola in cui il titolo è già un programma, come Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi (da Amore e non amore del 1971). Un ecologista ante-litteram? Certo, perché no? Lo stupore di fronte alla natura, come di chi scopra ciò che gli dà quella pienezza che da sempre andava cercando, emerge in Due mondi (1974). L’amore per la vita semplice, sana e onesta, incarnata dalla figura del contadino ingenuo, ma che sa vivere, trova la sua voce ne La canzone della terra o in Allettanti promesse, entrambe del 1973. Quest’ultima si segnala per la sua corrosiva e divertita critica del provincialismo italico, ma forse tipico di ogni centro urbano che, paesino di provincia o metropoli, attanaglia l’uomo nelle sue ipocrisie, meschinerie e lotte di potere. “Io non ci sto”, grida Battisti. Fuga dalla volgarità. Desiderio di libertà, individualismo anarchico misto a misantropia. Ricerca di una dimensione esistenziale autentica, con coraggio e sete di sensazioni: “E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante/ cancella quella supplica dagli occhi” (La collina dei ciliegi, 1973). Tema che ritroviamo in tempi più recenti nel periodo della collaborazione con Panella: “Non dobbiamo avere pazienza/ ma accampare pretese intorno a noi/ come un assedio/ ed essere aggrediti dalle voglie più voluminose” (La sposa occidentale).

Già Marco Rossi nel 1986, sulla rivista Intervento, sottolineava la presenza di una sorta di “costante filosofica che àncora... la ricerca musicale-espressiva dell’autore ai temi dell’anticollettivismo, del recupero del sentimento e, più ancora, della liberazione degli istinti primordiali e dei legami misterici che legano la Natura, il destino e le forze emotivo-passionali presenti nell’uomo”. Eccessivo per delle canzonette?

Si legga il testo di Ma è un canto brasileiro (1973) e, mentre il suo ritmo ci inebria, ascoltiamo Battisti cantare: “io non ti voglio più vedere sul muro/ davanti ad un bucato/ dove qualcuno ci ha disegnato/ pornografia a buon mercato”, oppure “mentre parli sei una semplice comparsa/ vestito da dottore/ che brutta farsa/ ti fanno alimentare l’ignoranza/ fingendo di servirsi della scienza”. Critica della logica mercantile che, fuoriuscita dalla sfera economica, diventa norma di condotta nella vita quotidiana. Si denuncia la perdita di dignità per la donna in un’epoca, anni Settanta, in cui se ne reclamava l’emancipazione. Senza tetri moralismi, si teme però la mercificazione del corpo femminile in nome di un’esistenza in cui, ormai, solo il denaro e l’apparenza sembrano avere importanza.

Molto più efficace, nonché piacevole, di un saggio di Marcuse. Non c’è che dire.

In un’intervista rilasciata nel 1974, Battisti dichiara: “Mi considero uno stimolo, ognuno poi reagisce col suo metro, con la sua volontà, con la sua cultura”. Noi abbiamo reagito. Basta ascoltarlo. O riascoltarlo.

 

da C&TL -Anno 1 N. 3 Settembre/Ottobre 1996

 

TRA LE VIE DI PISTOIA  di Danilo Breschi

Questa volta parliamo di Piero Bigongiari. Per due motivi. E come in un gioco di sponde sul tavolo verde della memoria il primo motivo rimanda al secondo, più lontano nel tempo. E i due motivi diventano uno.

Le edizioni di Via del Vento (oggi via Ventura Vitoni, dove abitarono per un certo periodo lo stesso Bigongiari - esattamente al n. 5 - ed anche la scrittrice Gianna Manzini) hanno recentemente pubblicato alcune brevi prose del poeta, sotto il titolo di Nel giardino di Armida. Questo elegante volumetto di color giallo ha portato la nostra mente ad altre pagine dello stesso autore, pagine lette un paio di anni fa.

Un sottile filo d’Arianna unisce le perle della memoria e spiega la naturale associazione di idee: l’infanzia-adolescenza che Bigongiari trascorse a Pistoia. Fu così che la nostra curiosità venne attratta da un volume, questa volta grigio-azzurro, che raccoglieva alcuni scritti giovanili inediti (Il sole della sera, Passigli Editori). In primo luogo la giovane età dell’autore quando concepì queste pagine e poi il fatto che le vicende narrate si svolgessero nella nostra città motivarono una lettura rapida e intensa. Non potevo non essere curioso di scoprire come un quasi coetaneo, seppur di sessant’anni fa, avesse vissuto e descritto la sua adolescenza fra le mura della città dove sono nato e cresciuto.

Parlando di questi due libri, dobbiamo però fare qualche passo indietro nel tempo, anzi catapultarci all’inizio degli anni Trenta, un’epoca davvero lontana anche per la “provinciale” Pistoia. Ne Il Sole della sera, il diciannovenne Bigongiari, studente della facoltà di Lettere a Firenze, rivisita con la memoria il suo breve passato dando vita a tanti alter-ego quante sono state le emozioni e le storie che più lo hanno segnato. Potremmo parlare di un Bildungsroman, un romanzo di formazione che nasce ogni volta per morire dopo poche decine di righe. Un romanzo in formazione, continua e mai compiuta. Già si intravede la predilezione per il verso scarno di uno dei principali esponenti dell’ermetismo fiorentino.

L’impatto iniziale di una lettura affrettata, dell’uno come dell’altro testo, potrebbe trarre in inganno e, delusi dall’assenza di una solida trama, farci abbandonare l’impresa. Talvolta si ha come la sensazione che la storia sia stata interrotta bruscamente e lasciata senza conclusione. Ma se l’occhio si sofferma un po' più a lungo sulla pagina, l’arcano è svelato. Ogni racconto, per quanto breve, è il sigillo posto a un’emozione, un’immagine, una sensazione così forti da dover essere messe su carta. E questo vale per entrambi i volumi. Ma adesso soffermiamoci un attimo sul secondo di questi, in cui i ricordi sono ancora vividi, con le loro tracce sulla pelle e nel cuore. E il sentimento è in azione, vissuto, non ancora malinconicamente pensato solo come residuo di un dono perduto.

Protagonista di ogni vicenda sono loro: le vie di Pistoia.

Proprio loro, con un vago sapore medievale, sono lo sfondo in cui si muove il giovane Bigongiari in un vagabondaggio della mente. Vie che ad ogni angolo offrono uno spettacolo di quella vita quotidiana che nasconde miserie, dolori e speranze.

Le vie, quelle strette dove i tetti delle case quasi si toccano a ritagliare un lucernario fatto di “un azzurro tragico”, quelle un po' più larghe, dove il sole si rotola gagliardo prima di coricarsi. Ecco via della Madonna allargata da un “torrente di luce al tramonto, rossa e gialla”, un breve incendio prima del freddo grigiore che annuncia la notte.

La sensibilità di colui che nasce poeta non può non captare, con un’eccitazione mista a nausea, le trasfigurazioni del quotidiano. Ma, come si è già detto, il paesaggio si colora degli umori del poeta. Le mura zebrate delle chiese, le anguste scale delle case, le botteghe operose non vivono che dell’eco del giovane cuore, dei suoi battiti.

Una prosa asciutta, quasi telegrafica, sorprendente per maturità stilistica, è il pennello con il quale Bigongiari dipinge (auto-)ritratti dal segno rapido ed energico. La parola raggiunge talora vette di pura poesia, come nel delicato incontro de Il padre o nella paginetta del Il sole al tramonto o, ancora, nello splendido Frammento. Qui il poeta si sdoppia e proietta un lui e una lei in una danza lieve che colma i vuoti dell’anima., Il desiderio di un abbraccio totale e senza fine in un ricordo che è speranza. Ma il dubbio sui veri sentimenti di lei esplode improvviso nell’interrogativo finale che incrina l’immagine.

Fra storie di famiglie che vivono la perenne tensione tra la “roba” che ingabbia e gli amori che liberano, Pistoia è l’invisibile presenza, la silenziosa scenografia

 

da C&TL -Anno 1 N. 4 Novembre/Dicembre 1996

COMUNQUE, LA VITA di Danilo Breschi

C’e un film che si apre con le acque di una palude insanguinata dall’esplosione di un sole rosso di tramonto, e i bagliori gialli denunciano lievi increspature. Tre bambini corrono sul pontile in fuga temporanea da un carcere i cui secondini sono genitori nei quali l’introversione può diventare violenza, fisica o morale. Una voce fuori campo benedice il loro tuffo e nell’immersione ne celebra l’unione in un girotondo di carne, sangue ed acqua. L’emersione sigla l’inizio del Il Principe delle Maree.

 Un intenso Nick Nolte dà volto e corpo al tormento che l’infanzia ha depositato nel cuore di un uomo, tanto chiuso in sé quanto pieno di vita da vivere e trasmettere. Un’appassionata Barbra Streisand, scavando nel passato di quell’uomo, ne riporterà alla luce la memoria, sepolta un giorno con la speranza di arginare il dolore, e di tutto questo innamorarsi sarà la causa nonché l’esito finale. Alla fine un uomo tornerà, o forse giungerà per la prima volta a comprendere il mistero della vita: gli affetti dati e ricevuti, l’orgoglio di fare qualcosa in cui si crede e la stima, di pochi o molti non importa, che inevitabilmente ne segue, i legami vicini e lontani. I ricordi ne sono il nutrimento. E ciò “è più che sufficiente”, perché il resto è da mettere nel conto di una permanenza tra la nostra “imperfetta, vergognosa umanità”.

Un film del genere non può non portare a chiedersi chi ne abbia scritto la sceneggiatura. Così mio padre mi ha fatto conoscere Pat Conroy, autore dell’omonimo romanzo nonché dello stesso adattamento per il grande schermo. Pertanto, incuriositi dal precedente e un po' intimoriti dalla mole, siamo andati a leggere la sua ultima fatica, intitolata Beach Music. Davvero straordinario. Se il Principe delle Maree è in sostanza una storia d’amore, sia pure inserita in un contesto più ampio, il nuovo romanzo è un affresco corale di più generazioni che si scontrano, si incontrano, segnano la vita di una cittadina del Sud degli Stati Uniti, Waterford, e quella dei suoi figli che disperde per il mondo.

Siamo di fronte ad un romanzo epico, una sorta di Odissea moderna compiuta anche stavolta in nome del ritorno, che è sempre occasione di travagli, bilanci e riconciliazioni con la vita. Conroy si rivela un maestro nell’arte dell’affabulazione e, descrivendo anche il dolore e la meschinità, riesce sempre a catturare il lettore e a farlo sentire partecipe.

La pagina, se abbassiamo il volume della ragione, comincia a pulsare e dice qualcosa che, alla fine, riguarda anche noi. Ci sentiamo coinvolti, e questo è quanto può fare la forza della parola. Come i racconti delle nonne che hanno avvolto di magia le infanzie di alcuni bambini.

Cosa troverete nel libro? Tutto ciò che uomini e donne, vecchi e bambini possono costruire negli anni, prendendosi lasciandosi. E possono anche distruggere nell’odio di guerre che massacrano popoli.

Apro il libro e m’imbatto in una pagina che mi riporta alla mente la grande mareggiata che suggella un’amicizia, una generazione, un’epoca. Scorrono le immagini esaltanti e malinconiche di Un mercoledì da leoni di John Milius, forse il solo regista che potrebbe cimentarsi nell’impresa quasi impossibile di trasformare degnamente questo romanzo in un film. Torno al libro. Li puoi vedere: quattro adolescenti con la loro tavola da surf  che si stagliano contro un cielo di burrasca, più o meno pronti a sfidare l’oceano. E nella testa ti ronzano alcune frasi lette poco prima:

“E allora quale è il motivo per cui fai surf? Vorrei conoscerlo.”

“Perché mi fa sentire come in presenza di Dio. L’oceano. Il sole. Le onde. La spiaggia. Il cielo. Non riesco a spiegarglielo, Doc. E’ come pregare senza parole”.

 

da C&TL Anno 2 N. 1 - Gennaio/Febbraio 1997

 ECHI NEL DESERTO di Danilo Breschi

Per ricorrere ad una frase abusata: uno spettro s’aggira per l’Europa (ma direi l’interno Occidente, sud-est asiatico compreso), e dello spettro ha l’inconsistenza corporea, anche se è così pesante quando invade uno di noi! Di chi sto parlando? Del niente, e non è una battuta. Uno dei più subdoli ed ignoranti mali di questo fine millennio va sotto il nome un po' ostico di nichilismo. Ma la realtà che tale termine descrive può essere, purtroppo, esperienza più facile e immediata.

Mettiamo che un marinaio d’altri tempi perda la sua bussola, oppure che, se nostro contemporaneo, gli si guasti il radar. Cosa succede?

E’ perso in una immensa distesa d’acqua a lui ostile, e non sa più a quale stella votarsi perché lui, già sulla via della modernizzazione, non sa più leggere le indicazioni che luna e stelle possono offrire (nuvole permettendo). Così spesso ci troviamo noi, senza più sapere come e dove orientarsi. Spaesati, abbiamo perso il senso, la direzione, perché il fine manca o lo si è oscurato. Ma quali erano le nostre bussole? I valori, gli ideali e tutte quelle parole che oggi, quasi quasi, ci danno fastidio, se non ci fanno addirittura ridere, un tempo erano argini. Con le sicurezze e i limiti che essi comportavano.

Oggi non abbiamo più risposte alla domanda: perché? Ma nemmeno ci resta il sentimento della sfida, perché se tutto crolla potremmo almeno provare il gusto della ricostruzione secondo criteri del tutto nuovi e originali. Una sensazione di vuoto e inutilità ci attanaglia con forza crescente, e i giovani, gli adolescenti ne sono le più docili prede.

Talvolta c’è pure compiacimento nei confronti di un mostro che liscia l’inerzia e l’apatia esistenziale, come fa il padrone col pelo del suo gatto. Anche la rabbia va scemando e ormai si manifesta prevalentemente in forme autodistruttive. Eppure proprio i giovani, e non solo, possono trovare nella musica alcune espressioni di questo disagio non soltanto generazionale, ma anche epocale. Non so se si tratti di un tentativo di risposta alla domanda da tempo elusa, ma certamente vi è la denuncia di qualcosa che non va e, cantandolo, si tenta una sorta di esorcismo. Ognuno di noi può partecipare al rito che si compie con l’ascolto di certe canzoni, e magari farne anche l’occasione per una nuova consapevolezza. Prendiamo, ad esempio, i La Crus che si chiedono Dov’è finito Dio? e muovendosi tra la Natura morta quasi invocano il paradiso alla ricerca di “un buco dentro al silenzio”. L’angoscia sale e opprime i giorni come le notti, ma senza riuscire nella distruzione finale, tanto che l’album si chiude con un pezzo dal significativo titolo Ricomincio da qui. Viene il momento, sia pure breve, in cui l’aria si fa un po’ più respirabile, ed il passo è meno pesante. Cominciare a camminare è d’obbligo. E’ esaltante.

Poi, assieme agli Estra, prova a sillabare “Re-sta ap-pe-so nei po-me-rig-gi ar-re-so” come fosse una cantilena funebre che sospende, con cadenza regolare, le percussioni di chi lotta e ti lascia nel buio a scrutare L’uomo coi tagli. Chi è? Una sorta di specchio della condizione della nostra anima, ormai a brandelli come l’impiccato che penzola dalla forca, avvistato da Baudelaire a largo dell’isola di Citera. L’uomo coi tagli è “la chiave di questa mia età”. Il rullare dei tamburi scandisce i passi marziali di una marcia, grottescamente trionfale, diretta proprio verso quell’abisso che pensavi di esserti lasciato alle spalle. Ma la fuga è illusoria. Pensa alla leggenda dell’appuntamento a Samarcanda, riproposta in note da Roberto Vecchioni. Adesso il niente ha preso il posto della Morte, mentre il destino è sempre lo stesso, ineluttabile.

Così a questa caduta siamo necessariamente votati? Non è detto. Potremmo sempre, in un estremo atto di ribellione, rifiutare una presunta “condizione giovanile obbligatoria”. Quell’amore che timido resta acceso come un falò, laggiù in quella città, può forse donare le forze residue per un’ultima lotta. In attesa di un’apertura, e che il canto di una nuova affermazione si dispieghi.

E talvolta il falò si spegne, e talvolta non basta nemmeno quel po' di calore a scacciare il gelo che paralizza ogni moto del cuore. Così esplodi in mille pezzi e ti frantumi come vetro. E’ la disintegrazione gridata da Robert Smith, la voce dei Cure che geme dentro di te un po' compiaciuta.

Il deserto che avanza, il deserto che divora le verdi vallate e le aspre montagne, che spiana e livella tutto come un bulldozer. E, come Attila, lascia dietro di sé solo macerie e terra arida, su cui è assai difficile edificare nuove speranze. Ma qualche eco risuona da lontano e l’eco, si sa, presuppone un ostacolo. Che sia il segnale di una resistenza al dilagare del nulla?

Fonti

- La Crus, LA CRUS, Wea

- Estra, METAMORFOSI, Cgd

- The Cure, DISINTEGRATION, Polygram

 

da C&TL Anno 2 N. 2 - Marzo/Aprile 1997

 UN GIORNO D’INVERNO, A VENEZIA di Danilo Breschi

Niente libri, niente recensioni. Rimandiamoli al mese prossimo. Oggi voglio parlare di una strana forma di letteratura e poesia fatta di pietre che affondano nell’acqua. Affondano non solo perché fondamenta di case, palazzi e chiese, ma anche perché sprofondano ogni giorno un po' di più.

La laguna è lo specchio di una lenta agonia che a poco a poco consuma i fianchi e il volto di una donna comunque ancora troppo bella. La morte non turba la bellezza, anzi potrei dire che il bello rifulge in tutto il suo splendore e stupore proprio al limitare dell’abisso. Proprio lì, al confine tra vita e morte, tu puoi cogliere il fiore della bellezza, che si sa, già lo diceva Platone, è fuggevole.

Gli antichi Greci usavano un termine per descrivere la natura di ciò che è bello: orion.

Orion significa adesso, in questo preciso momento. E la bellezza è qualcosa che capita, che si dà a noi nello spazio di uno sguardo. Un dono ricevuto, non si sa per quali meriti, e di cui ringraziamo il destino che però non fa regali, perché se è tale concede solo il dovuto.

Simili percezioni riecheggiano nella mente di chi attraversa calli e campielli in quel magico labirinto che ha nome Venezia.

E’ lei la donna che langue sul crinale della decadenza.

Andate e ammiratela, specie quando veste i panni del Carnevale. Panni sontuosi, eleganti, bizzarri e irriverenti, ma mai pacchiani o volgari. Inebriarsi del loro fascino e rimanere storditi è un tutt’uno.

Alcune maschere sono creature spettrali, con quei volti di mezza luna e i lunghi abiti vaporosi, i gesti aggraziati e dolcemente meccanici, vere e proprie marionette viventi. Mi riferisco soprattutto alle maschere femminili, o almeno tali, esempio di femminilità ambigua. Ambigua perché non sappiamo chi si celi dietro quella maschera. Ma ambigua anche perché vedo una femminilità leggera, pura, distillata fino all’essenza. Un tale tipo di costumi e maschere sa annullare l’identità per dar vita a surreali fanciulle, pallide dame in un’atmosfera fuori dal tempo, in uno scenario altrettanto favoloso.

Il fatto stesso che le mani siano coperte da guanti e che la pelle in ogni punto del corpo non sia visibile fa’ si che la sensualità perda ogni riferimento carnale esclusivamente visivo per acquistarne uno interamente percepito a livello intellettuale ed emozionale.

Personificazioni di grazia e candore, sì, di un candore fors’anche asettico ma estremamente fascinoso, tali maschere sono creature sulla soglia dell’umano, una soglia non del tutto varcata.

La vita, la morte e l’amore: alcuni nodi si formano nella mente e nel cuore del viaggiatore che si abbandoni agli odori che impregnano i portici. Quei nodi chiedono di essere sciolti. Non si è mai così innamorati della vita come quando la si sente scivolare via e si sa di non poterla recuperare, e con essa se ne va pure la speranza di riscriverne la partitura. Come c’insegna la disperata ironia del musicista di Anonimo veneziano, celebre film che potrebbe costituire uno dei due binari lungo i quali percorrere i ponti che tagliano i canali che tagliano la città. La malinconia e lo struggimento per ciò che è inclinato irrimediabilmente verso il basso. L’intensità della bellezza e non sopportare il fatto che non duri. Il corpo come condanna, fango che ritorna nel fango. Così l’uomo e così Venezia.

Un tale disse che “nessuno ha mai amato veramente, se non ha pensato, per un attimo, di morire con la sua amante”. E’ il romanticismo, non c’è che dire, e la città lagunare ne è la sede naturale, e poco importa che Marinetti il futurista volesse incendiarla, dopo aver ucciso il chiaro di luna. Che si tenga pure la sua Milano, non priva di fascino ma schiacciata dalle proprie sterili frenesie. Agonia e convulsioni senza poesia.

Comunque c’è anche un’altra Venezia, il secondo binario del nostro percorso.

E’ curioso come due sensibilità, pur provenienti da latitudini diverse ed espresse a distanza di tempo, convergano nello stesso luogo in un medesimo giudizio. E così, lungo il tragitto, ci imbattiamo nelle immagini evocate da un poeta russo, esule in cerca di una patria adottiva. Forse la trova in Venezia, e anche lui d’inverno. “Questo servizio di porcellana posato su un’acqua di cristallo” è un sogno, sublime e inverosimile, che prende corpo in un’architettura che si approssima al Paradiso. Un paradiso del tutto singolare, fatto solo di visioni, città dai mille specchi, per primo l’acqua stessa, dove si riflette l’ideale estetico di ognuno. Il corpo si trasforma nell’appendice dell’occhio.

Ma ecco l’inversione. Ora è lei che guarda te e ti chiede una metamorfosi. Tra acqua e fondamenta si gioca la partita dell’anarchia di ciò che non ha quiete contro l’ordine della forma che l’uomo impone alle cose e anche a se stesso. E’ una delicata combinazione di equilibri, “l’unione del genio dell’uomo con la potenza creativa della natura”, come dice un veneziano quasi sempre nerovestito

Venezia può anche essere qualcosa di diverso rispetto ad una città per lune di miele, ufficiali o clandestine che siano. E’ comunque il rifugio della bellezza, la bellezza che dà sollievo perché di te cattura solo l’occhio e ti affranca dalla prigione dell’anima.

Qualunque binario, alla fine, si scelga di percorrere, ciò che conta è aprirsi all’imprevisto, lasciare che accada ciò che deve accadere, senza cercare.

Non c’è solo la decadenza e poi “c’è sempre qualcuno che ricomincia”, perché lei ha la facoltà di riconciliare come può farlo un’isola fuori dal mondo, perché Venezia è il luogo dell’evocazione. Almeno fino all’ultima, definitiva consunzione.

 

da C&TL Anno 2 N. 3 - Maggio/Giugno 1997

 

SE IL MONDO E’ UN ESTRANEO di Danilo Breschi

Tornare ad un libro e trovarci, oggi come ieri, risposte e nuovi interrogativi vuol dire tornare ad un classico. Così deve essere considerato  Lo straniero di Albert Camus, annata 1942. Ecco perché ne consigliamo la lettura o la rilettura, a seconda dei casi.

Già la scrittura è sintomatica di un modo di sentire che Camus vuole trasmettere al lettore. Pagina dopo pagina siamo immersi in un atmosfera atona, costretti a respirare il clima afoso di un’esistenza opprimente nella sua inutile ripetitività, priva di reali novità, di strappi emotivi, del tutto estranei al protagonista. Lo stile è telegrafico. Le frasi procedono a scatti, nervose, a tratti quasi nevrotiche. A ciò contribuisce l’assenza di congiunzioni che solitamente rendono più fluido il discorso e gradevole la lettura. Una lettura che risulta affannosa e provoca, con l’andare del tempo, un senso di estraniamento.

Il protagonista di nome Mersault, si trascina in un’esistenza che, vista dall’esterno, ci sconvolge in tutta la sua sssurdità, la sua vacuità, la sua mancanza di passioni e ideali. Nessun sentimento forte lo scuote, lui così placidamente avvolto nella sua indifferenza, sordo ad ogni richiamo che può giungergli dal mondo esterno. Non si pone mai domande sul senso ultimo della sua permanenza in questo mondo. Il libro di Camus stupisce e, al tempo stesso, inquieta il lettore che rischia di trovarsi di fronte ad uno specchio, chiamato ad un esame di coscienza sul valore della propria vita, di ciò che ha fatto e sta facendo, La risposta può essere terrificante ed esiziale per il futuro.

Tutto pare senza spessore ed ogni cosa scorre come acqua sui vetri che non lascia traccia di sé dopo il primo raggio di sole. Così fino alla conclusione della prima parte, quando un evento traumatico irrora di sangue la vita di Mersault, che comincia a pulsare con ritmo intenso e violento. O meglio, così sembra, perché l’apatia regna ancora beatamente sovrana.

Torna più volte sulle labbra del protagonista, come un leitmotiv dell’esistenza assurda, l’espressione “ma questo non significa nulla”.

Mersault è talmente candido e sincero nelle sue risposte che la coerenza rasenta il ridicolo. Sottoposto ad interrogatori dalla polizia, reo confesso di omicidio, egli non prova che noia. Non sembra nemmeno umano. Nel corso del processo si forma l’impressione, complice il sistema giudiziario, di avere di fronte non più un uomo, ma un attaccapanni per appendervi storie costruite o interpretate da altri. Quasi in conclusione l’esplosione seppure momentanea: “Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta ...”, “dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente”. Alla fine, nel dialogo con il prete, Mersault emerge assumendo i tratti nobili dell’eroe, al di sopra della paura per eccellenza, la paura della morte. L’eroe assurdo, che si colloca niccianamente ad di là del bene e del male, fedele a quella terra che è già riscaldata a sufficienza dal sole e non ha bisogno di essere illuminata dalla fede in altri mondi, in altre vite. La vita è questa: in un momento la condanna diventa vittoria, la certezza della morte imminente fa sì che l’uomo aderisca in modo totale alla vita, divenuta finalmente tangibile, una cosa con la quale ingaggiare un corpo a corpo, per una fusione, mai perfetta, tra uomo e mondo. Ora sorge l’uomo assoluto , che vive senza speranza, ma che vive pienamente proprio perché senza più speranza e proiezione nel futuro; ha riscoperto l’azione, l’ostinazione a muoversi nell’inferno del presente, e con esse ha ritrovato la libertà. Do you remember Feu follet? Ecco, l’opposto.

Fuoco fatuo è il titolo di un romanzo del francese Pierre Drieu La Rochelle, in cui si descrive con impietosa precisione la notte di chi soffre della distanza tra sé e tutto il resto, distanza che non riesce a colmare. E così “il petto in fuori, nudo, ben esposto. Il cuore, si sa dov’è.

Una pistola, è solida, è d’acciaio. E’ una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose”.

E queste sono le ultime parole prima di un suicidio.

 

da C&TL Anno 2 N. 4 - Settembre/Ottobre 1997

 

I DUE VOLTI DI KIM di Danilo Breschi

Grazie ad una di quelle tante piccole coincidenze che attraversano la nostra vita mi sono imbattuto, grazie al piccolo schermo, in una bellezza hollywoodiana d’altri tempi, oggi non molto celebrata, quantomeno al di qua dell’Atlantico.

Con il dovuto rispetto a Marilyn, i giusti peana rivolti a B.B., gli immancabili omaggi all’icona di Michelle (l’incantevole Isabeau di Lady Hawk), non possiamo non riservare a Kim Novak un gazebo nel giardino della passione.

Niente ulivi ma camelie, bianche e carnose come le forme di Kim, come quel fiore premuto fra i suoi seni davanti ad un estasiato Dean Martin nella deliziosa commedia di Billy Wilder Baciami stupido.

Su una trama che assicura divertimento si muove, con vistosi ancheggiamenti, una Cenerentola tra uomini che la desiderano tanto volgarmente quanto inutilmente e uomini che naturalmente la rispettano e, altrettanto naturalmente, la conquistano. Cenerentola nei panni provvisori di un’annoiata prostituta che si ritrova moglie per una notte senza nemmeno essersi sposata.

Ironizzando sulla perversa logica della gelosia e facendosi elegantemente beffe del puritanesimo della provincia americana, Wilder ci ha regalato nel 1964 due ore di autentica spensieratezza e una visione di erotismo puro, che ancheggia e non offende.

L’esperienza curiosa sta nel fatto che improvvisamente ti ritrovi bambino e cadi rapito dalla vecchia magia del cinema, quella stessa che soprattutto in passato alimentava i tuoi sogni nutrendosi della realtà. La tua realtà incontra quella del regista. Quindi il volto di un’attrice che rievoca immagini familiari e il gioco è fatto. Non resta che abbandonarsi al viso, dolce e paffuto, di Kim acceso da uno sguardo spaurito e contrastato da un corpo che sprigiona risolutezza.

Altro che la Kim dei nostri tempi! Per quanto questa si dimeni tra calze e giarrettiere al ritmo della musica di Joe Cocker, la Kim degli ani ’60 è assai più conturbante,, lascia spazio alla fantasia e parla il linguaggio della sensualità in ogni gesto che fa, in ogni posa che assume. Con lei non c’è l’ossessione per quelle misure da manichino che rendono ormai i concorsi di bellezza simili a sfilate di attaccapanni assolutamente splendidi, ma uno identico all’altro. Con lei trionfa l’unicità della bellezza imperfetta che rompe i canoni di una estetica riprodotta su scala industriale, nella quale regna l’indistinto.

Chi volesse ammirare la nostra Kim sul grande schermo così com’era trent’anni fa ha oggi, eccezionalmente, la possibilità di farlo. Come? Andando a vedere un capolavoro della suspense di chi del brivido era maestro: Vertigo di Alfred Hitchcock. Il film, forse più noto col titolo La donna che visse due volte, è stato recentemente restaurato e ci offre l’occasione di scoprire un altro volto della bellezza di Kim. Così si presenterà a voi: più sofisticata, più magra, con quei capelli biondo-platino che rendono quasi irreale il volto pallido solcato dagli archi acuti delle sopracciglia. Insomma, avrete di fronte la donna enigma per eccellenza, forse un po’ leziosa ma questo fa parte del crudele gioco che tale donna è chiamata a condurre. Per qualche minuto vedrete pure una terza versione di Kim, avendo sempre di fronte quella fragilità che disarma.

Un’occhiata va riservata anche alla trama di questo avvincente thriller, trama nella quale restano impigliati frammenti di un discorso amoroso, sui quali può nascere una riflessione a proposito dei meccanismi dell’innamoramento.

Il protagonista maschile, James Stewart, grande attore recentemente scomparso, si trova al centro di una storia da lui interpretata ma costruita e pilotata da altri. John ha vissuto in modo talmente intenso il suo amore per Madeleine che nel momento in cui si rende conto di essere stato vittima di un complotto, di avere, in un certo senso, recitato una parte in una tragedia, non riesce a ricollegare il “fantasma” di Madeleine con la figura in carne ed ossa di Judy che gli sta davanti. Ha si realmente amato una donna, ma al tempo stesso questa non esisteva, non è mai esistita come Madeleine, moglie del suo vecchio amico e compagno di università. Non perviene subito a colmare il divario tra finzione e realtà. Questo perché l’amore vive si del corpo, di quel corpo, di quegli occhi e di quella bocca, ma non solo di quello. Si nutre pure di un insieme di circostanze, un’atmosfera che si crea intorno a quel corpo. Quello sfondo di eventi e piccoli particolari, apparentemente superflui, che però costruiscono, frammento dopo frammento, quella fitta trama di ricordi di cui si alimenta, rigenerandosi continuamente, il sentimento amoroso. Una “storia” insomma, senza la quale un corpo può rischiare di rimanere un vuoto simulacro, che non resiste all’incedere impietoso del tempo. D’altronde, cos’è una stella senza un cielo, un cielo notturno?

 

 da C&TL Anno 2 N. 5 - Novembre/Dicembre 1997

 Quel maledetto CORVO si libra nel cielo di Danilo Breschi

Nell’autunno di tre anni fa planava sulle nostre sale cinematografiche “Il Corvo” (The Crow), film tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr.

A distanza di tempo ne proponiamo una rilettura, magari per tornare a guardarlo con occhi diversi. Un’occasione per scoprire un personaggio della fantasia denso di richiami letterari e non privo di valenze simboliche.

Si narra la favola, romantica e cupa, di un giovane tornato tra i vivi per “rimettere le cose a posto”. Il corvo sarà la guida, pennuto Virgilio per un Dante giustiziere. Dall’inferno e ritorno. Si dice che l’inferno ci aspetti dopo la morte, ma qui la via che ci porta ad esso è lastricata di tante città come Detroit, fradicia di depravazione fino al midollo.

Alcuni critici, come ad esempio Claudio Quarantotto, hanno sostenuto che il film non avrebbe niente a che fare con la fantasia: troppo schematico, tanto da impoverire il fumetto. Va detto che, in effetti, il film perde qualcosa rispetto alla storia originaria e, specie nel finale, tutto si accelera improvvisamente cadendo sui binari di un normale film di azione. Non dobbiamo però dimenticare che, pochi giorni prima della fine delle riprese, l’attore protagonista è morto sul set, colpito da una pallottola vera. Questo ha complicato tutto, ha comportato il taglio di non poche scene ed altre non sono state nemmeno girate. Inoltre, nel giudicare “Il Corvo”, non ci si lasci ingannare dal battage pubblicitario e dalla fabbrica hollywoodiana del divismo, attivatasi immediatamente dopo la morte di Brandon Lee.

Si legga il fumetto e si guardi il film.

Il fumetto non brilla certo per fantasia, ma colpisce per l’originalità del tratto ed il fascino di un volto-maschera a metà fra Pierrot e Lucifero. Nel fumetto la monotonia omicida è più intensa e violenta che nel film. Questo, al contrario, è pregevole per l’atmosfera dark che sa creare, con un’azzeccatissima colonna sonora sul cui ritmo serrato scorrono immagini suggestive. Come la scena in cui Eric Draven, il protagonista, corre da un cornicione all’altro nella città di cenere, con l’agile potenza di un felino, al tamburo di passi che martellano i tetti e frantumano pozzanghere.

Fuliggine...pioviggine... il duello in cima ad una Notre-Dame dei nostri tempi. Neogotico notturno, il pallore di un volto, la luce dei denti, il ghigno del puro folle la cui pazzia è dolore implacabile per un futuro irrimediabilmente infranto. Un sogno rovesciato in incubo.

Sotto una pioggia incessante, tra i fumi di una città prosciugata dei suoi colori perché in balia del crimine, Eric, cui dà sostanza Brandon Lee, si muove alla ricerca di un po’ di giustizia. Giustizia che la Legge non ha potuto (non ha voluto) fare.

Insomma, la “colpa” non è tutta del film, ma anche di un fumetto che grida la disperazione e la rabbia dell’autore, anch’egli vittima di un’ingiustizia.

E’ una rabbia insensata, ma purificatrice. La ragazza amata, promessa sposa violentata e uccisa da una banda di bestie consapevoli che l’avvocato chiamerebbe persone, aspetta con veste diafana, oltre i relitti fumosi dei carnefici uccisi.

C’è una missione concessa dall’Aldilà: restaurare l’ordine là dove trionfa l’anarchia. Amore e morte. Vendetta e ricongiunzione.

Cos’è questo se non la riproposizione, in chiave metropolitana, di antichi stilemi e leggende che l’intellettualismo e il pietismo benpensante radical-chic respingono inorriditi?

Ancora non abbiamo visto il “Corvo 2”; qualora ne valesse la pena, potremo, riparlarne in futuro, altrimenti ci accontenteremo di questo primo volo.

Un’occhiata alla figura del corvo: carico di valenze simboliche, questo animale compare nelle leggende e nei miti di popolazioni anche molto distanti tra loro nello spazio e nel tempo. Dai germani ai greci, dai celti agli indiani d’America.

Il Romanticismo, nelle sue varie sfumature, ha trasformato il nero volatile in un vero e proprio topos letterario. Nel 1845 Edgar Allan Poe gli ha reso omaggio con la celebre poesia “The Raven”. Un misterioso visitatore alimenta fantasmi nella gelida notte del poeta. E’ il corvo, ancora una volta come tramite tra i vivi e i morti, che porta un messaggio breve e definitivo: “Mai più” (Nevermore).

Mai più la donna amata tornerà dai lidi di Plutonia, dove la morte l’ha sequestrata per sempre.

E come non ricordare quei becchi aguzzi che hanno fatto a brandelli il corpo di un impiccato che penzola sull’isola di Citera, corpo nel quale Baudelaire vede riflessa la condizione della propria anima, martoriata da voraci ossessioni e da inquietudini sempre in bilico tra il cielo e l’inferno.

Dal bostoniano maledetto al suo malinconico ammiratore parigino: il corvo attraversa l’oceano e sfiora il mito.

 

 da C&TL Anno 3 N. 2 - Maggio/Giugno 1998

 DAL BUIO ALLA LUCE, QUINDI IL CHIAROSCURO

Nascita della poesia

1^ parte

di Danilo Breschi

E' sempre difficile commentare la poesia, tanto più rinchiuderla in una recensione, proprio perchè la poesia nasce dall’esigenza e con l’intenzione di esprimere ciò che spesso la prosa stenta a trasmettere. L’essenza della poesia è l’arte dell’evocazione, proferire parole speciali per chiamare a raccolta gli spettri del passato, del presente e del futuro. Ora l’uomo balla e l’altro canta, il terzo suona. Ora in tono lieto, ora in tono mesto. Ma è spesso una musica “dolente, tremante, ardente”, come quella suonata dai Marlene Kuntz, a far vibrare maggiormente le corde del cuore come fosse una lira, lo strumento con il quale gli antichi Greci accompagnavano ogni recitazione di versi.

Se il caso vuole che tutti e tre gli spettri, nel medesimo istante, facciano visita al poeta, questi avrà dinanzi agli occhi della mente visioni di cose visibili e non visibili ad uno sguardo sano e desto. Ricordi di luoghi, persone e situazioni che richiamano alla bocca del cuore i sapori di emozioni, sensazioni dolci e violente che premono per entrare e poi uscirsene dall’altra bocca.

E via in caduta libera a stamparsi sulla carta o a brillare sullo schermo, lettera dopo lettera. Sono loro a dar forma a visioni riservate al solo poeta, spettacoli segreti dove oggi balugina la lussuria e domani la beatitudine di sensi sublimati. Perchè tutto, o quasi, passa attraverso il primo vaglio dei sensi, anche se questo transitar di sensazioni resta spesso inavvertito. Poi  è sempre l’intelletto, nutrito com’è di piatti colti, a spogliar con gli occhi le attrici di questi spettacoli, ovvero le fascinose parole. Le denuda, oggi per goderne la carne, che ha la consistenza del sogno; domani, per rivestirle di un paio d’ali e spararle nel cielo.

Nasce così una nuova costellazione dei gemelli, i cui nomi sono Dolore e Gioia. L’uno non si offre se non può continuare a scorgere l’altro, sia pure di soppiatto. Ecco il firmamento scolpito dal poeta e di cui ci parla Rosita Copioli:

              Ragazzo,

con il cuore che sgorga lacrime

come il cuore del dolore,

e il tuo pianto è una cascata

di cristallo senza fine,

ascolta le  mie parole di artigiano,

che lavora con la pelle e con il tempo.

Il canto, che è come il pianto,

va puntato, stretto, fissato,

fermamente battuto ai suoi punti celesti:

gli corrisponde un firmamento.

L’arte è inchiodare il firmamento:

non ti è già dato, dev’essere trovato:

sei tu che lo dovrai

rendere reale.

(Il firmamento, da Elena, Guanda, Parma 1996)

Dunque, la poesia può compiere solo un viaggio dalla terra al cielo?

Ci piace pensare che non sia così.

Anche perchè una domanda ci pone, con tutta la sua inevitabilità, un problema: dove hanno origine gioia e dolore, coppia primigenia che inaugurò la stirpe poetica?

La risposta è nella constatazione che la radice di entrambi si trova in una totalità, una pienezza impalpabile eppur così avvertibile, dal rapporto con la quale l’uomo genera i gemelli terribili. La separazione dall’origine sgravida il dolore e una ricongiunzione ad essa partorisce la gioia e così dalla notte dei tempi, il mortale fa la spola tra il più e il meno, ogni volta svegliando l’uno o l’altro dei poli della coppia.

A metà strada: questa la condizione (sospesa) dell’uomo, cioè di colui che ospita Mnemosyne, la divina memoria, figlia di Urano, il cielo, e Gea, la terra. E nella memoria, occorre dirlo con le scienze e non solo con le lettere, si annidano i cinque sensi più un sesto senso, quello di una coappartenenza originaria al principio di tutte le cose. Realtà dimenticata o folle desiderio di pensarsi dopo la morte e, perciò, prima della nascita?

E sia pure un desiderio, che ogni tanto serva a toglierci dalla strada in mezzo alla quale tanto tempo passiamo. L’uomo come mendicante dell’universo.

Era l’insano Holderlin a scrivere  che “un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando pensa”; e qui la capacità di sognare non va intesa quale mezzo di fuga comoda e vigliacca, ma come un modo poetico di abitare il mondo, alla ricerca di un bene più vero del primo che ti cade sott’occhio.

Romanticherie son queste, a cui si deve cedere ogni tanto. Farlo è certamente cosa buona e giusta.

 

da C&TL Anno 3 N. 3 - Ottobre/Novembre 1998

 UNA STAGIONE E LE SUE OCCASIONI - Con ansia, Furore e Rimpianto

di Danilo Breschi

Vi ricordate gli operai dell’impresa poetica, gli spettri del passato, del presente e del futuro?

Bene, parlavamo di una possibile nascita della poesia. La conclusione cui siamo giunti è la seguente:

l’immaginazione, che con l’aiuto dei tre spettri trasfigura la calda materia delle esperienze, non si ciba di sole viscere umane ma attinge pure ad un altrove che la memoria intercetta non si sa dove.

Abbiamo parlato di un’origine, della radice prima ed ultima dell’accadere, la cui distanza dall’uomo determina lo stato d’animo di quest’ultimo. Tanto più lontane fra loro sono l’anima del mondo e quella dell’uomo, tanto più la nostalgia e la tristezza affliggono il povero mortale.

Così abbiano contrapposto unità a molteplicità, composizione a dispersione come ciò che ha valore rispetto a ciò che è disvalore. Ma questa è solo una possibile lettura, che il mito ci consente, dell’origine delle passioni che tanta parte hanno nella creazione artistica.

Difatti nessuno ci vieta di pensare paganamente il molteplice come l’unica fonte, tanto della gioia quanto del dolore. Se l’infinita varietà dell’esistenza mi stupisce io non posso che gioire; se della vita e delle sue continue metamorfosi colgo solo l’instabilità e la caducità io soffro e mi rattristo. Le sorprese, di cui la vita è colma, non sempre fanno piacere e l’ambivalenza, ancora una volta, marchia a fuoco la nostra vita. Come ha scritto Stefano Zecchi, “questo è il fascino e il dramma, antico e sempre nuovo, della vita: la solitudine della nostra assoluta irripetibilità s’incontra con l’indeterminata variabilità dell’accadere” (Sillabario del nuovo millennio, Mondadori 1993)

All’inizio si cantarono gli dèi e la genesi del mondo e dei popoli, poi venne Ermes che inventò uno strumento dal dolce suono, la lira, e così nacque la poesia lirica. Cosa si cominciò a cantare? I voli e le cadute del povero mortale, la misteriosa signora che ad ognuno è promessa, la vita, e sua sorella che è solo una certezza, la morte. Su chi sia la più bella delle due è aperta da tempi remoti una lunga controversia tra i poeti. La risposta non ci è ancora pervenuta.

E’ ora di passare ad un esempio concreto di questa poesia che canta l’uomo e i suoi destini. Abbiamo scelto un adolescente d’oltralpe, che nel giro di poche stagioni sconvolse la tradizione poetica e la propria vita per sempre. Ascoltiamolo:

CANZONE DELLA PIU’ ALTA TORRE

 

Pigra giovinezza

a tutto asservita,

per delicatezza

ho perso la vita.

Ah! Che i tempi rendano

cuori che si prendono.

 

Mi sono detto: cessa,

non farti vedere:

senza la promessa

di gioie più vere.

 

Che nulla vi angusti

romitaggi augusti.

 

Tante le pazienze

che le ho scordate;

ansie e sofferenze

sono in cielo andate.

La mia sete impura

le vene mi oscura.

 

Così abbandonato

all’oblio il prato

fiorito, e più immenso,

di loglio e d’incenso

nei fieri bordoni

di sporchi mosconi.

 

Mille vedovanze

del povero cuore

che ha solo sembianze

di Nostra Signora!

Si prega la pia

Vergine Maria?

 

Pigra giovinezza

a tutto asservita,

per delicatezza

ho perso la vita.

Ah! Che i tempi rendano

cuori che si prendono!

CHANSON DE LA PLUS HAUTE TOUR

 

Oisive jeunesse

Atout asservie,

Par délicatesse

J’ai perdu ma vie.

Ah! Que le temps vienne

Où les coeurs s’éeprennent.

 

Je me suis dit: laisse,

Et qu’on ne te voie:

Et sans la promesse

De plus hautes joies.

 

Que rien ne t’arrete

Auguste retraite.

 

J’ai tant fait patience

Qu’à jamais j’oublie;

Craintes et souffrances

Aux cieux sont parties.

Et la soif malsaine

Obscurit mes veines.

 

Ainsi la prairie

A l’oubli livrée,

Grandie, et fleurie

D’encens et d’ivraies

Au bourdon farouche

De cent sales mouches.

 

Ah! Mille veuvages

De la si pauvre ame

Qui n’a que l’image

De la Notre-Dame!

Est-ce que l’on prie

La Vierge Marie?

 

Oisive jeunesse

A tout Asservie

Par déelicatesse

J’ai perdu ma vie.

Ah! Que le temps vienne

Où le coeurs s’éprennent!

(tratto da Arthur Rimbaud, Opere, Einaudi 1990, a cura di Gian Piero Bona)

 

L’alienazione non è solo figlia della fabbrica e della moderna società industriale.

Osiamo dire che è costitutiva dell’esistenza umana, quantomeno in parte e specie in certe stagioni della vita. L’autocoscienza realizzata, il pieno possesso di sé e del mondo non a caso hanno rappresentato la grande ambizione del pensiero occidentale. Ma una piccola distrazione, una leggerezza, ed ecco che giorni, mesi, persino anni, se ne sono andati senza che io fossi realmente protagonista delle mie azioni. Eppure, dicono alcuni, per agire occorre pensare un po’ meno. Può anche essere, ma questo richiamo della memoria non è forse solo un brutto scherzo giocato dal rimorso? Oppure dal rimpianto di non aver fatto ciò che si voleva, a suo tempo, fare? O che, adesso, vorremmo fare?

L’invocazione conclusiva della prima ed ultima strofa rischia di restare lettera morta, una vana illusione, speranza senza futuro. E’ la nostalgia per un periodo della vita nel quale giovani amori potevano nascere e consumarsi. Che ciò sia stato o non sia stato non importa. Ciò che conta è che l’orizzonte fosse aperto, e il sogno sapesse imboccare la strada del possibile. Ma quel tempo se n’è andato, è scivolato tra le dita come qualcosa di liquido. Al massimo, restano solo poche gocce ad impregnare la pelle.

Il giovane poeta è tutto preso dagli affanni quotidiani, immerso nello stagno delle passioni e degli umori che monopolizzano i suoi pensieri. Prigioniero dell’ansia, non pensa nemmeno ad alzare la testa sopra il livello dell’acqua. Una diversa prospettiva darebbe nuova luce e colore alle sue giornate. Un poeta italiano, Sandro Penna, scrisse che:

 Forse la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi.

 (da Croce e delizia, 1927-1957)

Un ideale, possibile risposta a Rimbaud. Ma nel poeta francese il senso di colpa è più forte. E la gioia non si distingue dalla sofferenza. E allora fuggire, fuggire lontano, ma dove? E se anche sapessi dove, la fuga ha un senso? La chiesa in cui mi imbatto può forse darmi rifugio; ma la preghiera da sola è garanzia di nuova vita? La poesia si conclude com’era iniziata, con l’unica certezza: il tempo se n’è andato, e il ponte si spezza.

Il cammino ha una sola direzione, ormai.